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Dare della cornuta su Facebook è reato: lo conferma la Cassazione

Una recente sentenza depositata dai giudici della Corte di Cassazione ribadisce che le offese espresse pubblicamente mediante social network costituiscono reato di diffamazione aggravata.
A cura di Charlotte Matteini
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Le offese su Facebook sono diffamazione aggravata. A ribadirlo è la Corte di Cassazione che con la sentenza 2723/2017 pubblicata lo scorso 20 gennaio torna a sancire un principio già precedentemente stabilito da pregresse decisioni: "La divulgazione di un messaggio tramite Facebook, ha, per la natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, che, del resto, si avvalgono del social network proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato; pertanto se il contenuto della comunicazione in siffatto modo trasmessa è di carattere denigratorio, la stessa è idonea ad integrare il delitto di diffamazione", si legge nella sentenza riportata dal portale Studio Cataldi.

Il caso di specie analizzato dai giudici della Cassazione riguarda la vicenda di una donna che si è trovata a ricevere una serie di messaggi nei quali un'altra utente, che aveva una relazione parallela con il compagno della donna insultata, la definiva più volte "cornuta". Nel merito del provvedimento, l'imputata era già stata ritenuta penalmente responsabile della condotta, condotta poi successivamente confermata dalla Cassazione con questa sentenza. Rifacendosi a una decisione del 2015, i giudici della Cassazione rilevano infatti che " la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone", diffamazione quindi equiparata a quella a mezzo stampa.

La difesa dell'imputata ha cercato di sostenere che nel caso in oggetto mancasse l'elemento soggettivo del reato, senza il quale non è possibile procedere con l'incriminazione per diffamazione. La Corte ha però risposto ai rilievi della difesa sostenendo che "per il delitto di diffamazione è necessario e sufficiente il dolo generico, che si verifica tramite l’uso consapevole di espressioni che nel contesto sociale di riferimento sono ritenute offensive, per il significato che oggettivamente assumono". In sostanza, utilizzare un termine socialmente ritenuto offensivo, come appunto il "cornuta" oggetto del caso di specie, per definire una persona presuppone chiaramente l'esistenza di un'azione dolosa soprattutto alla luce dei fatti che riguardano la vicenda: "Avendo la Corte tenuto conto dell’intero compendio probatorio emerso e del rapporto sentimentale che univa O. al compagno della persona offesa, per cui l’imputata era da ritenersi ben consapevole, date le peculiarità della situazione che stava vivendo, non solo dell’efficacia denigratoria dell’espressione "cornuta" ma anche delle conseguenze devastanti sul piano della relazione interpersonale tra i due fidanzati", spiegano i giudici nella sentenza.

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