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Saul Bellow fa cent’anni: è il compleanno del grande autore americano

Nato il 10 giugno del 1915, premio Nobel nel ’76, Saul Bellow è stato la dissacrante coscienza critica d’America e d’occidente in quel Secolo Breve che ha attraversato e della cui cultura la sua prosa si è imbevuta. Non solo la cultura, però: tutta la vita civica della nazione americana: la grande depressione, gli anni sessanta, l’era reaganiana; i suoi personaggi, colti, frenetici, sentimentali e indifesi, sono anche emblemi di una straordinaria inquietudine intellettuale.
A cura di Luca Marangolo
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“Se sono matto per me va benissimo” pensò l’iper-civilizzato, indifeso, elucubrante e antieroico protagonista dei romanzi di Saul Bellow, lo scrittore più incredibilmente celebrato e (quindi) non letto dello scorso secolo.

Il paradosso si fa avvincente considerato che cade proprio oggi un secolo esatto dalla nascita del creatore di Herzog e di Augie March’s Adventures, il 10 giugno del 1915: tutti lo celebrano come il grande vecchio della letteratura americana ma pochi lo leggono.  Prosa fluente, capace di infilare con poche righe il proprio lettore nel flusso esistenziale dei propri personaggi, che sono tutti voci uniche eppure tutte un’unica voce, in un certo senso.

Una voce ebrea, d’accordo, una voce molto americana, una voce occidentale, che rivendica a se stessa una sorta di dimensione diversa dell’esistenza, estremamente colta e mentale eppure spaesata dietro grandi costruzioni ideologiche, culturali, narrative che ha davanti: la voce dei protagonisti di Saul Bellow è quella di un individuo che vuole liberarsi dai grandi alibi della cultura occidentale e interrogarsi sulla dimensione basilare, cruda, fondamentale dell’esistenza. Come il protagonista di The Rain King, uno dei romanzi più divertenti dell’autore, che parla di un milionario emotivamente goffo in un modo molto americano che fugge dalle sue responsabilità in un’Africa totalmente trasfigurata dalla penna del suo creatore.

All’inizio di The Rain King il protagonista Henderson elenca la sua  personalità, ovvero riconosce la sua identità sociale e psicologica in una serie di correlativi, in una serie di oggetti: i suoi figli, le sue mogli, i suoi soldi, i suoi denti; questa immagine dell’uomo americano, come denudato di una coerenza intellettuale che avrebbe potuto magari prendere in prestito dalla sua società e dalla sua cultura (come tenta di fare Herzog, del resto) ha sempre colpito chi scrive. Si, perché The Rain King, nell’essere il relativamente meno convulso dei capolavori di Saul Bellow sullo smarrimento della mente occidentale è anche il più icastico, il più metaforico, forse il più allusivo.

L’Africa che l‘eccentrico milionario in fuga incontrerà è tutt’altro che edenica, ma è appunto la visione straniata e divelta da tutti i pregiudizi dell’America che Bellow ha raccontato negli altri suoi libri, nel picaresco e sbandato percorso esistenziale di Augie March, nell’incredibilmente claustrofobico mondo mentale di Moses Herzog: è un universo crudo e pulsivo, fatto di credenze strane, di assurdità, è insomma il rovescio di un mondo ipercivilizzato dove uomini coltissimi o ignorantissimi, ricchissimi o poverissimi, si affannano per la sopravvivenza.

Certo, Saul Bellow è stato sicuramente l’erede americano della grande letteratura ebraica continentale, e di conseguenza il suo capostipite statunitense: a lui fanno capo i vari, Malamud, Roth, Auster, Doktorow, ma nelle sue pagine si sente anche l’eredità di Ernest Hemingway, di Mark Twain, si sente, potremmo dire, questa concezione tipica della letteratura americana di guardare la finzione narrativa come a un luogo dove costantemente problematizzare l’esistenza non discernendo (o volontariamente sovrapponendo) la sua componente più intellettuale, più ideale, più astratta, dalla sua componente più materiale, più concreta, basilare.

Non è un caso che quando fu recensito il suo capolavoro, Herzog, negli anni Sessanta, Saul Bellow ha dichiarato di voler rifiutare in tronco l’etichetta di “scrittore degli intellettuali”:  dichiarando che Herzog era un personaggio costruito per prendere in giro gli intellettuali, per mostrare quanto fondamentalmente fallimentare potesse essere l’apparato culturale di cui si dota l’uomo nell’impervia impresa di cogliere e interpretare i suoi bisogni esistenziali.

La vita Di Saul Bellow fu frenetica e complessa almeno quanto la sua scrittura. Cento anni fa nacque in Canada da genitori  di Pietroburgo, agli albori della Grande Guerra,  ma  si trasferì subito negli Stati Uniti; l’America aveva appena iniziato un lungo percorso di autoconsapevolezza rispetto al suo ruolo nel “mondo libero” e, va da sé, anche di costante mistificazione e di auto-illusione su ciò che era e su ciò che doveva essere per se stessa e per gli altri; intanto l’intellettuale Bellow cresceva e dalla povertà arrivava ad ottenere denaro e successo, passava da un libro all’altro e da un divorzio all’altro, da un incarico universitario all’altro e  da un premio letterario all’altro imponendosi con grande concretezza come voce beneficamente dissacrante di questo processo costante di auto-illusione e auto-consapevolezza dell’America nel Novecento. I suoi personaggi possono essere visti così: delle coscienze isolate, che compaiono come segnali distinti di un’inquietudine, intellettuale ed esistenziale insieme, nel grembo di questo intero processo.

A cent’anni dalla sua nascita, dieci anni dopo la sua scomparsa, questa figura di autore è talmente inattuale da essere piuttosto necessaria, è talmente lontana da essere un modello interessante per capire dove collocare socialmente, culturalmente, ancora, i libri e gli scrittori.

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