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Opinioni

Perché a 9 anni dal Naufragio dei bambini continuiamo a sopportare i morti in mare?

Nove anni fa un barcone carico di profughi sprofondava nel mare: 268 morti di cui oltre 60 bambini. Ancora oggi nulla si conosce sul perché e su chi pesino le responsabilità. Perché?
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L'11 ottobre del 2013, nove anni fa, io e la mia compagna avevamo appena avuto il nostro primo figlio: ricordo che ero molto emozionato e impaurito all'idea di essere diventato padre e ricordo altrettanto chiaramente che la notizia di quello che poi hanno chiamato Naufragio dei bambini mi aveva scosso profondamente. 268 persone disperse in mare, di cui oltre 60 erano poco più che neonati: bambini come il nostro, che da pochi mesi era entrato nelle nostre vite e grazie al quale cominciavo a comprendere quelle frasi degli anziani che mi risuonavano in testa "ora la tua vita non è più soltanto tua" o "darei la mia vita per dar loro un futuro migliore". Una strage che seguiva, di pochissime settimane, la terribile tragedia di Lampedusa che aveva visto morire 368 persone e 20 disperse, una delle più gravi catastrofi marittime del Mediterraneo.

Sull'emozione di queste tragedie quasi sicuramente evitabili, l'Italia e l'Unione Europea hanno dato il via il via a Mare Nostrum: l'operazione internazionale coordinata da Marina e Guardia costiera, secondo i dati del governo, nel suo anno di attività fino al 31 ottobre 2014 soccorrerà 100250 persone. Solo negli ultimi 15 anni sono morte in mare più di 30000 persone, trentamila fra donne, uomini, bambine e bambine e solo nel 2021 sono stati registrati 3.231 morti o dispersi: un numero impressionante anzi terrorizzante se ci si fermasse anche un solo istante a pensare che sono 30.000 nomi, con storie, famiglie, amori, sogni e vite, tutte affogate, tutte disperse nel "profondo seno del mediterraneo". E purtroppo, nonostante questo, restano perlopiù corpi senza nome.

Il Naufragio dei bambini è stata un'enorme tragedia non solo per la perdita incolmabile di vite umane, ma anche una tragedia perché quasi del tutto inevitabile: si scoprirà poi – grazie all'inchiesta di Fabrizio Gatti (giornalista ed essere umano meraviglioso) e alle indagini degli avvocati Alessandra Ballerini di Genova e Emiliano Benzi di Roma – che ad appena 17 miglia dal barcone (stipato in ogni centimetro e carico ogni oltre immaginazione), a poco meno di un'ora di navigazione, quel pomeriggio dell'11 ottobre 2013 c'era anche il pattugliatore militare Libra, nave adibita a ricerca e soccorso. Ma Libra non solo non interviene in alcun modo ma si dirige a tutta velocità in direzione opposta a quella del peschereccio carico di profughi siriani: uomini, donne e bambini che scappavano dalla guerra. Alle 11 di quella stessa mattina il barcone aveva perso il suo secondo e ultimo motore e lentamente si stava inabissando. Così da quel momento partono continue e strazianti richieste di auto alla Guardia Costiera che semplicemente si rifiuta di intervenire, scaricando "il barile" a Malta.

"You have to call Malta, understand?" risponderà l'ufficiale italiano a Mohamed J., medico siriano in fuga dalla guerra con la moglie e tre figli (nessuno di loro, tranne lui, sopravviverà), quando questi nella sua ultima, straziante telefonata lo implorava "Please we are dying". E dalla prima di tante richieste di aiuto fino all'affondamento, passano inutilmente quasi cinque ore. Cinque ora durante le quali Libra li avrebbe potuti raggiungere e salvare. Cinque ore in cui sono morte oltre 268 persone. Quando poi l'equipaggio di un aereo ricognitore di Malta riconosce Libra dall'alto e ne chiede l'impiego, perché unica nave nelle vicinanze a poterli salvare, le centrali di Roma della nostra Guardia costiera e della Marina lo negano: questa sarà la prova inconfutabile su chi pesino le responsabilità di quella strage.

Il maggiore maltese George Abela, ai comandi del ricognitore King Air B200, dopo questi eventi lascerà il suo lavoro, profondamente scosso, addolorato e deluso: racconterà, in una sola occasione, di aver dovuto assistere inerme a decine di corpicini che sprofondavano, inghiottiti dalle onde, uno dopo l'altro, andando incontro alla morte. Bambini e bambine che non avranno mai una vita da raccontare, mai un futuro migliore.

Nonostante questo, nonostante siano passati nove anni, svariati processi – per l'ultimo dei quali, dove i due imputati sono accusati di rifiuto di atti d'ufficio e omicidio colposo, è stata chiesta la prescrizione -, una condanna del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite nei confronti dello Stato italiano per “non aver prontamente risposto alle varie chiamate di soccorso”, nonostante la schiacciante verità dei fatti e nonostante persino il Papa si sia pronunciato a favore dell'accoglienza, definendo un crimine contro l'essere umano lasciar morire le persone in mare, nulla pare sia cambiato e anzi la retorica razzista e anti-accoglienza sembra apparire sempre più forte e radicata nella nostra cultura.

Perché?

Perché è accaduto questo? E perché lasciamo che si ripeta ogni giorno sotto i nostri occhi. Su chi pesano le responsabilità di quegli orrori? Forse si volle dare un segnale: l'abbandono in mare di un barcone di innocenti era un monito per chi avrebbe voluto tentare la medesima sorte. O forse i militari della marina spingevano in qualunque modo perché accadesse qualunque cosa che portasse ad approvare il progetto Mare Nostrum che avrebbe portato nelle casse della Marina centinaia di milioni di euro. O forse semplicemente perché nessuno si voleva prendere la responsabilità e il peso della salvezza di quelle vite umane, con tutto ciò che comporta (compresi i famigerati "35 euro al giorno"), come dimostra chiaramente la risposta del comandante della sala operativa che ferma ogni iniziativa di salvataggio: “Senti un attimo, il Libra non deve trovarsi sulla direttrice tra motovedette e Malta […] non deve stare tra i cog… quando arrivano le motovedette”. Altrimenti poi sarebbe toccato a noi italiani occuparcene e prendercene cura e purtroppo, a quanto pare, la solidarietà e il rispetto di antiche e profonde leggi del mare, non sono più sentite in un paese in cui ormai la campagna elettorale è perenne.

Io non conosco la risposta a tutte queste domande, so però che i flussi migratori sono come il vento, come le onde o le maree: non si possono fermare, mai. E l'unico modo per trovare una soluzione, è cercarla quella soluzione. Altrimenti ci riduciamo al rango di bestie, che si distinguono solo in base agli odori, al colore della pelle. E la democrazia, nel senso più alto e profondo della sua parola, muore… in mare. Quando sentiamo parlare di Olocausto, seppure siano passati oltre settant'anni, siamo ancora capaci di urlare il nostro sgomento, il nostro orrore e provare compassione per tutte le vittime di quella immonda tragedia, quale che sia la nostra collocazione politica: ecco, è in atto un nuovo olocausto, una nuova Shoa, solo che non vengono usati forni crematori, ma il mediterraneo.

Se vogliamo davvero garantire un futuro migliore alle nostre figlie e ai nostri figli – come dicevano i nostri vecchi – dovremmo far sì che tutte e tutti lo abbiano a disposizione. Il futuro non puo' essere un privilegio.

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