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Paolo Del Brocco (Rai Cinema): “Abbiamo bisogno di grandi storie capaci di emozionare”

L’Amministratore Delegato di Rai Cinema analizza lo stato dell’industria audiovisiva italiana, partendo dalla necessità di ridurre il numero di film prodotti e ribadendo l’importanza strategica di continuare a investire nella sperimentazione e nella ricerca di nuovi talenti.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Dice Paolo Del Brocco, AD di Rai Cinema, che l’industria italiana dell’audiovisivo deve cambiare: di tornare ai livelli pre-pandemia, soprattutto per quanto riguarda il numero dei biglietti venduti, e allo stesso tempo di trovare un nuovo equilibrio interno sulla quantità dei film prodotti. Parla della necessità di riformare il sistema sugli Oscar, dando più spazio e sostegno ai titoli che vengono scelti per rappresentare il nostro paese nella categoria del miglior film straniero, e rimette al centro, ancora una volta, l’importanza della comunicazione.

Dopo la pandemia, spiega Del Brocco, c’è stato un aumento dei costi produttivi tra il 30 e il 40%. È chiaro che serve fare un passo indietro e ripensare alle proprie scelte. È fondamentale riuscire a trovare un compromesso tra quelle che sono le necessità dei produttori, soprattutto di quelli più piccoli e virtuosi, e il punto di vista dello Stato. Viviamo in un periodo particolare, in cui non solo l’informazione è frammentata ma lo stesso approccio che hanno gli autori alla cosa raccontata è differente.

Del Brocco deve rispondere al mandato che ha e che gli impone determinati obiettivi da raggiungere. Purtroppo tra questi non ci sono progetti animati. I suoi sogni nel cassetto come produttore sono due: un film su Alan Ford e uno spaghetti western. Ciò di cui abbiamo bisogno, ripete, sono le grandi storie. E di quelle, per ora, si sente una grande mancanza. Questo è il suo Controcampo.

Quanto è importante la comunicazione nel racconto del cinema e quindi nella costruzione di un contatto con il pubblico?
Viviamo in un'epoca in cui c’è una frammentazione di informazioni veramente enorme. Siamo bombardati costantemente da tantissime cose e raccontare un film nello specifico è diventato difficile.

Prima era diverso?
Prima avevi la pubblicità in tv, la cartellonistica e gli articoli di giornale. Adesso sei quasi obbligato a sparpagliare, nel piano di marketing e di comunicazione, le tue risorse. Devi coprire i social, Internet, altri linguaggi e altri spazi. È più complicato, secondo me, riuscire a intercettare un target. Forse, con i film più verticali, concentrati su determinati temi e costruiti in un determinato modo, è più facile. Ma con quelli rivolti al pubblico più ampio non è così. L’arrivo e l’affermazione delle piattaforme streaming, probabilmente, ha confuso ancora di più le acque.

Perché?
Perché al di là delle specifiche finestre distributive c’è la percezione di poter vedere dopo appena pochi giorni un particolare film in piattaforma. E spesso si aggiunge anche un’altra idea, totalmente sbagliata.

Quale?
Che vedere un film in streaming sia percepito come qualcosa di gratuito. E non è così. Gli abbonamenti da pagare ogni mese costano. Quando insistevamo su una regola uguale per tutti i film nella distribuzione theatrical, lo facevamo perché volevamo dare un’informazione chiara e netta al pubblico. E cioè: finché non passano tot giorni, l’unico luogo dove poter vedere un film è la sala.

Oggi non è così? Non c’è questa chiarezza?
Secondo me se provi a chiedere allo spettatore medio, non avrà un’idea così concreta. Poi, per carità, non basta questo per risolvere i problemi dell’esercizio e della distribuzione tradizionale, ma sicuramente è uno dei principali.

È evidente, però, che la crisi dell’esercizio e delle sale sono cominciati prima dell’arrivo e dell’affermazione dello streaming.
Dipende dal punto di vista che decidiamo di assumere. Se guardi i numeri degli ultimi venti, venticinque anni, prima della pandemia e dello streaming, noti che c’è un andamento preciso e costante. Sono stati questi due eventi insieme, pandemia e affermazione dello streaming, a cambiare le cose. Di più, a cambiare la percezione che le persone hanno dell’esperienza cinematografica. Prima c’era una media annuale, senza alcuna distinzione tra film italiani, americani o di altri paesi, di circa 80 milioni di biglietti venduti. Era un trend molto statico, per carità. C’erano dei picchi solo quando arrivavano i titoli come le commedie di Zalone o i blockbuster come Avatar. Con la pandemia, è crollato tutto. E la ripresa, secondo me, è diventata più difficile. Proprio per questo cambiamento che c’è stato nella percezione. E poi c’è stata un'altra conseguenza importante.

Quale?
Il target compreso tra i 14 e i 18 anni, quello che andava volentieri al cinema per un certo tipo di programmazione, tra film più spettacolari e ricchi di effetti speciali e commedie, sembra essere quasi scomparso.

All’inizio di quest’anno, tre film come Il ragazzo e l’airone, Perfect Days e Past Lives, tutti distribuiti da una realtà indipendente come Lucky Red, sono andati molto bene. È un’eccezione o è l’ennesima inversione di rotta?
Questo è un dato molto positivo. Innanzitutto perché è in controtendenza rispetto a quello che accadeva fino a poco tempo fa per il cinema di qualità. Il mercato si sta riprendendo e probabilmente, alla fine di quest’anno, riusciremo a tornare ai numeri di biglietti venduti prima della pandemia. E, tra parentesi, complimenti a Lucky Red.

E poi?
E poi c’è l’indubbio successo del cinema di qualità. Sia straniero sia italiano. Si vede che c’è un pubblico attento e che è pronto ad andare a vedere il meglio – come ti ha detto anche Nicola Giuliano nella sua intervista – del cinema mondiale. Ricordiamoci che quelli che arrivano in Italia non sono tutti i film prodotti nei vari paesi: sono, appunto, i migliori. Il film di Paola Cortellesi è un fenomeno a parte, ma credo che ci siano tutti i segnali di un ritorno al cinema di spettatori curiosi e adulti.

Cos’è, ora, che va peggio?
Paradossalmente sono i blockbuster. Non tutti e non tutti allo stesso modo, intendiamoci. Però è evidente una certa stanchezza nei confronti di alcune produzioni che, fino a qualche anno fa, andavano benissimo. Non faticano ad arrivare in cima alle classifiche, ma non fanno più gli stessi numeri.

Hayao Miyazaki, il regista de Il ragazzo e l’airone, è chiaramente un regista affermato. Eppure è evidente il successo che sta riscuotendo l’animazione in sala. Come Rai Cinema, state pensando di cominciare a investire in questo tipo di progetti?
Noi abbiamo un mandato aziendale chiaro. La Rai si impegna nell’adempimento della quota obbligatoria produttiva di animazione tramite la direzione di Rai Ragazzi. Rai Cinema, invece, si occupa di un altro tipo di produzione. Non è un giudizio sul prodotto. Noi ci occupiamo del cinema di finzione in live action.

Al di là del mandato aziendale, a te piacerebbe?
Sai, spesso non è nemmeno una questione di piacere o non piacere. Io faccio il manager per una realtà come la Rai; non sono un imprenditore privato e non posso decidere di testa mia. Tra l’altro, per lavorare a progetti d’animazione servono delle competenze specifiche, che francamente non abbiamo in Rai Cinema. Fare animazione è un mestiere completamente diverso rispetto a quello che facciamo noi ogni giorno.

Durante la pandemia, si è prodotto troppo?
Assolutamente sì. Anche su questo, però, bisogna fare chiarezza. Abbiamo avuto un problema. Ovvero, c’è stato un grido d’allarme. Tutti avevano paura che l’industria italiana dell’audiovisivo potesse fermarsi da un momento all’altro. Siamo riusciti a resistere grazie agli interventi del governo e al tax credit, che rimane uno strumento democratico a cui tutti, in teoria, possono accedere. Io stesso ho ricevuto il mandato di supportare il più possibile produzioni e co-produzione. Con il senno di poi, è diventato evidente che sono stati sviluppati fin troppi progetti. E si è creata, così, una bolla. Non solo produttiva, attenzione. Ma pure di costi. Parliamo di circa il 30, 40% in più.

E adesso?
Adesso questa bolla sta scoppiando e dobbiamo far fronte alle nuove difficoltà, come, appunto, l’aumento dei costi. Le piattaforme, non solo in Italia ma a livello internazionale, stanno cambiando il loro piano editoriale, riducendo i loro investimenti – almeno questa è la mia sensazione. C’è un problema effettivo nell’assorbimento dei titoli sia nella distribuzione theatrical sia nei diritti di sfruttamento successivi all’arrivo nei cinema. E questo ha due effetti.

Quali?
Il primo di natura economica: diventa difficile per i produttori mettere insieme le risorse necessarie per sviluppare nuovi progetti. L’altro di natura comunicativa: i film ricevono sempre meno visibilità. Permettimi di aggiungere una cosa, però.

Prego.
Io ho sempre ripetuto che dalla quantità nasce la qualità. Non possiamo produrre, come qualcuno sta suggerendo, solo venti film all’anno. Dobbiamo continuare a cercare e a sperimentare, e per farlo bisogna produrre decisamente un certo numero di titoli. Altrimenti il rischio che corriamo è di non avere un ricambio generazionale di autori. So benissimo che buona parte di questa responsabilità cade su di noi, proprio per la natura di Rai Cinema che deve fare da supporto all’industria culturale.

Che cosa serve?
Un equilibrio. Anche questo l’ho detto tante volte. Dopo aver investito così tanto durante la pandemia, ora dobbiamo essere in grado di ritornare ai livelli produttivi precedenti, trovando il numero giusto di film da sostenere e sviluppare.

Che cos’è che fa di un film “un film di qualità”?
Secondo me, la storia. È quello che conta davvero. E poi, ovviamente, il modo in cui si racconta. Parliamo di quei film che sono in grado di avere un impatto sugli spettatori, di accompagnarli anche all’uscita dalla sala. Questo non significa smettere di fare film di puro intrattenimento: servono anche quelli. Ma il cinema di qualità ci invita a fare una riflessione precisa, a condividere emozioni e sentimenti. E non importa il genere. Poi c’è la qualità produttiva, che non va assolutamente sottovalutata e che in questi anni, grazie anche all’arrivo delle grandi piattaforme e delle grandi realtà internazionali, ha avuto la possibilità di crescere in modo vertiginoso.

Rispetto al periodo della pandemia, si sente una mancanza di supporto da parte delle istituzioni? Penso, per esempio, i ritardi sul tax credit.
Credo che la verità sia nel mezzo. È evidente, per esempio, che c’è bisogno di una riforma del sistema. Il grande numero di film prodotti dipende anche da questo. Servono dei modi per arginare questa sovrapproduzione. Quello che so è che stanno cercando una quadra sia per tutelare la produzione come attività sia per stabilire dei paletti capaci di frenare atteggiamenti, diciamo così, poco virtuosi. È molto difficile. Da una parte ci sono realtà che devono poter continuare a lavorare, come i piccoli produttori indipendenti, e dall’altra c’è lo Stato che deve tenere la situazione sotto controllo.

Pensi che sia diventato necessario provare ad anticipare, in qualche modo, il percorso distributivo di un film? Soprattutto all’estero, per avere la certezza, anche nell’ottica di una corsa agli Oscar, di un distributore locale pronto a investire e a sostenere i nostri film.
Sì, certo. Però non possiamo cominciare a ragionare così: facciamo film per andare agli Oscar. Potrebbe avere degli effetti negativi. Ci sono degli esempi di film che sono stati costruiti per arrivare chissà dove e poi si sono fermati sotto casa. Un grande autore o una grande autrice italiani, con delle possibilità, hanno sicuramente dei distributori internazionali capaci alle proprie spalle. Nel caso di Matteo Garrone e di Io capitano, parliamo di Pathé. Poi è il distributore internazionale che trova il distributore americano. Nella maggior parte dei casi, i distributori americani scelgono i film internazionali al Festival di Cannes a causa della tempistica. Dobbiamo muoverci prima senza dare nulla per scontato.

Per esempio?
I grandi distributori americani spesso non hanno un solo film internazionale nel loro listino. Mi ricordo quando qualche anno fa Sony Classic, che distribuiva Il traditore, a un certo punto della campagna Oscar preferì investire buona parte delle sue risorse nel film di Pedro Almodóvar, Dolor y gloria.

Per Io capitano, invece, com’è andata?
I distributori americani hanno avuto paura del tema, è questa la verità. Cohen Media Group è entrato solo a dicembre e tutta la campagna è stata organizzata dall’Italia: abbiamo gestito l’advertising in America occupando persino spazi a Times Square. Abbiamo fatto davvero tantissimo, e il risultato lo dimostra. È stato esaltante ma chiaramente più difficile. Se avessimo avuto un distributore più grande, con altre risorse, non dico che avremmo vinto l’Oscar, no, ma probabilmente avremmo potuto organizzarci in modo diverso. Io ho seguito ogni passaggio; di Io capitano, a Los Angeles, si è parlato a lungo nell’ultimo mese. Ma altri competitor con distributori come A24, Netflix, Sony e Neon hanno avuto a loro disposizione budget milionari. Parliamo di campionati completamente differenti.

C’è qualcosa che si potrebbe fare in modo differente?
Bisogna ripensare al sistema Italia nell’ottica degli Oscar. E questo lo dico al di là di chi, poi, verrà scelto. Non possiamo decidere alla fine di settembre il film che ci rappresenterà. Anche un solo mese di anticipo potrebbe aiutare. Gli altri paesi si attivano molto prima, e cominciano a guardarsi attorno alla ricerca di publicist e di competenze professionali con largo anticipo rispetto a noi. Poi dobbiamo muoverci insieme, come sistema-paese, pensando a degli strumenti che non lascino il singolo produttore da solo nell’organizzazione.

Resiste ancora un pregiudizio nei confronti dei film italiani da parte del pubblico della sala?
Queste sono semplificazioni su cui è difficile esprimersi. Come sentito dire, forse sì. Ma la verità è che non abbiamo dei dati oggettivi su questo tipo di considerazioni. E poi i film belli non hanno mai problemi.

Chi verrà penalizzato dalla diminuzione dei film prodotti? Gli autori più giovani, alla loro opera prima o seconda, o gli autori già affermati, che dovranno rinunciare a budget più importanti?
Serve innanzitutto una sensibilizzazione dei produttori e degli autori. I film non possono costare così tanto. Se c’è una valutazione oggettiva, basata su necessità effettive, va bene. Ma se un film costa tanto solamente per una ragione inflativa non va bene. I produttori, nella maggior parte dei casi, questa cosa la sanno. Tra i registi, a volte, si attivano delle dinamiche di pura competizione: se lui ha avuto così tanti soldi, allora devo averli anche io. Su chi viene penalizzato, bisogna fare un discorso più ampio.

Partiamo dall’inizio.
C’è un cinema più ricercato, con temi e aspirazioni più alte. E in questo caso, secondo me, non conta solo il box office: sono film che bisogna fare. Nemmeno i film dei nuovi autori, magari dopo una buona opera prima, devono essere penalizzati. Dobbiamo continuare a ricercare e a sviluppare per il futuro del nostro cinema.

I problemi, allora, quali sono?
C’è un certo tipo di produzione, che definirei media, che viene fatta più per sostenere l’industria che per il film in sé. Ed è giusto, per carità. Se prima, però, c’era un pubblico per questi tipi di film, oggi non è più così. Aggiungo: è diventato complicato anche venderli alle piattaforme. Su questo tipo di produzioni, è importante fare una riflessione.

Qual è l’altro problema?
I giovani, spesso, vogliono fare tutti gli autori. Non dico che devono fare per forza commedie o film per la famiglia. Ma bisogna ricordarsi che dall’altra parte, in sala, c’è uno spettatore. E poi molti vogliono fare sia i registi che gli sceneggiatori. Le proposte che ci arrivano sono per il 95% scritti, diretti e qualche volta anche prodotti dalla stessa persona. E questo è un problema. Soprattutto quando parli di giovani autori, che devono ancora mettersi alla prova.

Qual è il rischio?
Di fare sempre lo stesso film, di non uscire mai dalla dimensione dell’opera prima. L’unica cosa che cambia è il budget. Se arrivano il nuovo Bellocchio, il nuovo Sorrentino, il nuovo Garrone o la nuova Rohrwacher va benissimo. Ma sono eccezioni, ricordiamocelo.

Molto spesso, però, le opere prime che vengono prodotte non hanno un distributore. Penso a Holy Shoes di Luigi Di Capua, che è stato presentato al Festival di Torino.
Dunque, nel caso di Holy Shoes, un distributore è stato trovato e dovrebbe essere Academy Two. Più in generale, però, è vero che c’è un problema. Noi produciamo una media di settanta film ogni anno, e ne possiamo distribuire solamente venti. Se noi, come parte della Rai, abbiamo un obbligo produttivo, la realtà distributiva non ha alcun vincolo da soddisfare. È mercato, è commerciale, è visibilità.

Voi come vi ponete?
Noi stiamo attenti nell’avere un listino più vario possibile, con esordi e grandi autori, e nel raggiungere un equilibrio tra generi e tipologie di film. Diciamo sempre a priori se possiamo o meno assicurare una distribuzione a un film che siamo pronti a produrre. La distribuzione sta diventando sempre più un problema rispetto alla quantità di film prodotti. Che fai? Riduci i film? E di quanto? Oggi è chiaro che è più facile fare un film che trovare un distributore per la sala.

Rai Cinema sta lavorando, tra le altre cose, a Una famiglia, l’opera prima di Vinicio Marchioni. Credi che ci sia come un nuovo filone industriale caratterizzato proprio dal passaggio degli attori dietro la macchina da presa?
Noi ne abbiamo sempre fatti di film così, diretti da attori, e nella maggior parte dei casi sono andati bene. Gli attori dimostrano di avere una grande esperienza. Ultimamente, a parte C’è ancora domani di Paola Cortellesi, sono arrivati al cinema anche altri esordi. Penso a Volare di Margherita Buy. Si vede che, a un certo punto della propria carriera, alcuni attori sentono l’esigenza di mettersi ulteriormente alla prova.

Qual è il film che ti piacerebbe produrre?
Io avevo la fissa di Diabolik, e in qualche modo siamo riusciti a farlo. Ora ho altri due sogni nel cassetto. Uno è un film su Alan Ford, e anche questo viene dai fumetti. E l’altro è riuscire a girare un western all’italiana. Sono consapevole, però, della difficoltà di entrambe queste idee.

A proposito di western, Rai Cinema non stava producendo Colt di Stefano Sollima?
Ci abbiamo provato, ma non si è riusciti con il produttore a mettere insieme il budget necessario. Quindi, per il momento, l’abbiamo messo da parte. Forse ci riproveremo in futuro. Io però non mi riferivo a un western così; pensavo proprio a uno spaghetti western.

Di che cosa ha bisogno oggi il cinema italiano?
Ha bisogno soprattutto di grandi storie. A noi arrivano circa 800 progetti all’anno. Ed è difficile trovare delle storie che ti colpiscono subito, che ti sorprendono. Abbiamo bisogno di novità e freschezza. E abbiamo bisogno di originalità.

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È nato a Napoli il 24 ottobre del 1991. Per qualche anno, è stato direttore della sezione CartooNA del COMICON. Ha curato le Masterclass Off per il Giffoni Film Festival. È stato consulente editoriale di Lucca Comics and Games. È giornalista pubblicista. Collabora con quotidiani e riviste, e si occupa principalmente di spettacoli e di cultura.
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