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Perché odio l’otto marzo

Fiori, futilità, frasi fatte, cortei sbagliati: perché non c’è festa più triste e retorica dell’otto marzo e perché dovremmo cambiare questa giornata, anziché celebrarla.
A cura di Maria Cafagna
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Non ho mai vissuto bene l’otto marzo fin da quando ero bambina e sono arrivata a detestare questa festa per ragioni molto diverse in diverse fasi della mia vita. Gli appassionati e le appassionate di astrologia vi diranno che il mio odio verso questa e altre ricorrenze è prerogativa del mio segno zodiacale, l’Acquario, segno anticonformista per eccellenza, nemico di tutte le convenzioni e di tutte le tradizioni imposte, e forse è così perché io non odio solo l’otto marzo, odio proprio tutte le feste comandate, ma ho l’impressione che questa festa non sia in se divisiva, ma che lo sia diventata col tempo, mischiando impegno e futilità senza mai essere davvero patrimonio comune.

La prima ragione per cui odio l’8 marzo è quella che ci unisce un po’ tutte, e cioè è che detesto le mimose. Le mimose sono un fiore delizioso ma difficilmente le vedremo in casa di qualcuno in un giorno che non sia l’8 marzo: c’entra forse il profumo non proprio piacevole e il fatto che dopo il loro manifestarsi rigoglioso, le mimose appassiscono e lasciando in giro un sacco di pelucchi che a chi se non la brava massaia dovrà raccogliere?

Scherzi a parte – ma poi scherzi a parte di cosa, raccoglieteli voi che ce li regalate i pelucchi delle mimose – ho sempre provato disagio per questa festa fin da quando ero piccola e l’8 marzo voleva dire che le donne potevano concedersi finalmente un’uscita fuori, il che la dice lunga sulla condizione della donna in generale. Ma mentre mia madre usciva a fare una pizza con le amiche, le donne più smaliziate andavano “allo spogliarello” perché l’8 marzo era il carnevale della donna, una festa dove i ruoli si invertono e le abitudini si sovvertono, quindi l’eccezione, cioè il regalo, diventa convenzione e dove la libera uscita con le amiche e, perché no, l’oggettivazione del corpo altrui, pratica vista molto comune per l’uomo e che per una sera può concedersi anche la donna. Ho formulato questo ragionamento solo da adulta perché da bambina non avevo gli strumenti per formularlo, ma percepivo lo stesso un velo di tristezza in tutto questo famigerato 8 marzo, avvertivo una gioia posticcia, triste, squallida.

Crescendo e andando via di casa, l’8 marzo ha smesso di essere la festa dello spogliarello ed è diventata giornata di lotta, di rabbia, di slogan, insomma è rimasta una giornata triste. Con le amiche – che l’8 marzo smettono di essere amiche e diventano compagne o sorelle – sono scesa in piazza per partecipare ai cortei indetti dai movimenti femministi, ma anche lì ho provato la netta sensazione di non trovarmi a mio agio. Alla testa del corteo c’è sempre stato un camion con un pessimo impianto di amplificazione e con una povera compagna costretta a urlare per farsi sentire: il risultato è sempre una voce gracchiante e molto acuta, quasi inascoltabile, con la povera speaker che già a metà corteo non ce la fa più a urlare per lo sforzo, con le pile del megafono che nel frattempo si sono scaricate e tutte noi che pensiamo “meno male, perché non se ne può più”.

Tornando per un attimo serie – però vogliamo dotarci per favore di un buon impianto di amplificazione? Vi pare normale che bisogna tornare sempre a casa con le orecchie sfondate? – il problema è che molto spesso i cortei dell’8 marzo vengono fagocitate da una parte politica, per cui negli anni l’8 marzo è stata sì la festa internazionale dei diritti della donna, ma è anche stata una manifestazione contro il Jobs Act, contro la riforma Gelmini, contro la Bossi-Fini, a favore delle occupazioni e della legalizzazione delle droghe leggere, temi su cui si può essere d’accordo ma anche no, ma che dovrebbero essere accantonati durante un corteo che dovrebbe essere abitato e attraversato dalle donne e dalle loro istante. Per anni ho partecipato a questi cortei ed ero lì a manifestare con la mia presenza non solo per rivendicare i miei diritti di donna, ma anche per cause a cui non avevo scelto di aderire ed è per questo che ha scanso di equivoci quindi ho deciso di non scendere più il piazza l’8 marzo.

Anche questo 8 marzo non festeggerò e anche questo 8 marzo nella chat della mia classe delle superiori qualcuno manderà un omaggio a tutte le donne presenti e qualcun altro si chiederà quando faranno una festa anche per gli uomini. La giornata passerà come sempre tra venditori abusivi di mimose e con le storie Instagram delle mie amiche – anzi compagne, anzi sorelle – che al contrario di me sono scese in piazza e che immortaleranno nei loro tondini la solita compagna che urla i soliti slogan con il solito impianto sfasciato.

Festeggerò quando l’8 marzo smetterà di essere una festa triste, che non vuol dire che festeggerò quando avremo riconosciuti i nostri diritti – per quello temo ci vorrà tantissimo tempo, probabilmente più di quello che passerò su questa terra – ma quando chi organizza questi cortei capirà che non c’è cambiamento quando c’è la retorica, che non c’è futuro se prima non saremo realmente inclusive e che l’8 marzo non è la marcia di poche, ma la marcia di tante.

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Maria Cafagna è nata in Argentina ed è cresciuta in Puglia. È stata redattrice per il Grande Fratello, FuoriRoma di Concita De Gregorio, Che ci faccio qui di Domenico Iannacone ed è stata analista di TvTalk su Rai Tre. Collabora con diverse testate, ha una newsletter in cui si occupa di tematiche di genere, lavora come consulente politica e autrice televisiva. -- Maria Cafagna   Skype maria_cafagna
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