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Opinioni
Cambiamenti climatici

Per risolvere la crisi climatica serve una transizione ecologica radicale, non tecnologie inefficaci

Gli investimenti in tecnologie per risolvere il problema climatico aumentano, ma restano inefficaci su larga scala perché l’unica soluzione è una transizione ecologica radicale.
A cura di Fabio Deotto
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Un impianto di carbone in Germania (ph Jens Schlueter/Getty Images)
Un impianto di carbone in Germania (ph Jens Schlueter/Getty Images)
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Nel suo ultimo romanzo, Termination Shock, Neal Stephenson immagina che in un futuro non troppo lontano un miliardario alla Jeff Bezos decida di risolvere il problema climatico e si metta arbitrariamente a sparare nell’atmosfera tonnellate di diossido di zolfo, allo scopo di schermare le radiazioni solari e abbassare le temperature.

La prospettiva è meno fantascientifica di quanto potrebbe sembrare – nel 1991, nelle Filippine, il vulcano Pinatubo tornò in attività riempiendo l’atmosfera di zolfo, con il risultato che nei due anni successivi le temperature globali diminuirono di 0,5 gradi -, ma è bene che rimanga nel novero della fantascienza, per il semplice motivo che non abbiamo la più pallida idea delle possibili ricadute di una mossa tanto grossolana.

Lo scorso 28 febbraio, in mezzo all’assordante clangore della guerra in Ucraina, è stata pubblicata la seconda parte del VI Rapporto di Valutazione dell’IPCC, che il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha definito “un atlante della sofferenza umana”. Il verdetto è chiaro: già metà della popolazione planetaria sta subendo le drammatiche conseguenze della crisi climatica e il nostro ecosistema è sempre più vulnerabile. L’unica soluzione, ancora una volta, è ridurre al minimo le emissioni, e alla svelta. Ma l’abbiamo detto, ridurre drasticamente le emissioni implica una riconfigurazione del nostro sistema economico e produttivo, e un ripensamento del nostro modo di abitare il pianeta. Uno sforzo che alcuni vogliono a tutti i costi aggirare, e per farlo sperano di poter calare sul tavolo la carta tecnologica.

Mentre l’idea di sputare zolfo nella stratosfera ancora rimane ai margini del dibattito, a fronte di queste nuove evidenze, si parla con sempre maggiore insistenza di altre “soluzioni” tecnologiche al problema climatico, in particolare quelle che si concentrano sulla rimozione del carbonio presente nell’atmosfera.

Gli alberi artificiali non esistono (o quasi)

Lo scorso settembre ha cominciato a rimbalzare per la rete una notizia che a occhi poco allenati poteva apparire come uno spiraglio di speranza, dopo un’estate flagellata dalle ricadute dell’emergenza climatica: in Islanda, a Hellisheiði, era stato inaugurato l’impianto di cattura e sequestro dell’anidride carbonica più grande al mondo. Orca, questo il nome del progetto (dall’islandese orka, che significa “energia”), è stato realizzato dalla società svizzera Climeworks: a vederlo ha l’aspetto di un’enorme griglia di aerazione modulare, e in effetti si occuperà di risucchiare aria per poi canalizzarla verso un collettore dotato di uno speciale filtro per la cattura della CO2. Una volta che il filtro è pieno, il collettore viene chiuso e la CO2 separata dal filtro e combinata con acqua, per poi essere spinta a mille metri di profondità.

Non stupisce che l’annuncio di un colossale impianto per la cattura diretta del carbonio dall’aria (DAC) crei entusiasmi: sappiamo bene che la crisi climatica è generata da una concentrazione sempre più alta di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera; come sappiamo che il nostro margine d’azione risiede più nel ridurre le nuove emissioni di gas serra che nel tentare di sottrarre quelle già presenti in atmosfera. La prospettiva di poter rimediare in parte ai danni che abbiamo già fatto è allettante, soprattutto considerando gli ambiziosi obiettivi annunciati a livello internazionale, ma al momento si tratta soltanto di una prospettiva potenziale. Per capire perché è sufficiente considerare che Orca consentirà di rimuovere dall’atmosfera 4000 tonnellate di anidride carbonica l’anno, l’equivalente di quella emessa da circa 870 veicoli privati. Una quantità risibile che non basta nemmeno a scalfire il monte emissioni che, è il caso di ricordarlo, nel 2021 è cresciuto fino a sfiorare quota 40 miliardi di tonnellate.

Al momento, dunque, gli impianti DAC non possono essere considerati una componente strategica della lotta alla crisi climatica, e questo non solo perché anche volendo ci vorrebbero decenni prima di attivarne a sufficienza da risultare incisivi, ma anche per via dei costi che comportano. Per sottrarre anidride carbonica all’aria, infatti, vengono utilizzati composti amminici che richiedono l’impiego di enormi quantità d’acqua (per un miliardo di tonnellate di CO2 ne servirebbero 100 chilometri cubici, per dire). Non solo, il processo necessario a separare l’anidride carbonica dall’aria esige altissime temperature e di moltissima energia elettrica. Nel caso dell’impianto islandese il calore e l’energia provengono entrambi da una centrale geotermica; una condizione molto particolare, e difficilmente riproducibile altrove.

Un modo per ridurre l’impatto energetico e aumentare l’efficienza di questi processi esiste, e consiste nel posizionare gli impianti in corrispondenza di attività che generano fumi ad alte concentrazioni di CO2; e non a caso molte aziende fossili stanno investendo somme gigantesche in questo settore.

Come spazzare le emissioni sotto il tappeto

La legge sulle infrastrutture varata dagli USA lo scorso anno prevede investimenti per 12 miliardi di dollari in progetti di cattura e sequestro del carbonio (CCS); una cifra significativa, che ricalca un trend riscontrabile più o meno in tutto il mondo (Italia compresa). L’attenzione che molti governi stanno dedicando a queste tecnologie è indicativa del tipo di approccio che intendono adottare nei confronti della transizione ecologica: invece di predisporre misure per la riduzione dei consumi energetici si preferisce cercare soluzioni per riuscire a mantenere produttività e crescita economica ai soliti livelli, provando a ridurne l’impatto.

La maggior parte dei progetti CCS oggi proposti prevede la cattura del carbonio derivante da combustione di fonti fossili, di conseguenza sono spesso associate a centrali a carbone o a gas. L’alta concentrazione di CO2 prodotta dai fumi di questi impianti rende più facile separare la CO2 che successivamente viene trasportata in forma liquida, attraverso autocisterne, navi o tubature, per essere poi stoccata in siti appositi, che per semplicità spesso finiscono per essere giacimenti fossili ormai esausti.

Sulla carta, potrebbe sembrare una soluzione sensata ed economicamente vantaggiosa, peccato che queste tecnologie, che oggi vengono presentate come risolutive e avveniristiche, sono ancora in uno stato di maturazione embrionale, oltre a essere incredibilmente costose. Basti pensare che, stando ai calcoli condotti dalla IEA, un sistema di cattura e sequestro del carbonio associato a una centrale a carbone, porterebbe a spendere fino a 340 dollari per ogni tonnellata di CO2 strappata all’atmosfera: una cifra parecchio alta, se si considera che il carbon pricing auspicato dall’Accordo di Parigi entro il 2030 si assesta sui 75 dollari a tonnellata.

Per ovviare a questo ostacolo economico c’è chi punta ad accoppiare la cattura del carbonio a sistemi che consentano di riutilizzare quella CO2 per produrre nuovo carburante, per i processi chimici necessari per la produzione di plastica e calcestruzzo, o per la raffinazione di idrocarburi, un approccio noto come Carbon Capture and Utilisation (CCU). Ma anche in questo caso quella che potrebbe sembrare una soluzione-scorciatoia è in realtà una mezza fregatura: proprio in queste settimane uno studio dell’Università Radboud di Nimega, nei Paesi Bassi, ha mostrato come la maggior parte dei processi CCU oggi testato, tra perdite in fase di stoccaggio e processi di riutilizzo, emette più carbonio di quanto ne rimuova.

Non stupisce allora che in un report pubblicato dal WWF nel maggio del 2021, e intitolato “Ambiguità, rischi e illusioni della CCS-CCUS”, l’utilizzo di queste tecnologie nel breve termine venga bocciato senza troppi giri di parole: “Oggi appare insensato dare supporto pubblico a progetti commerciali di CCS-CCUS. Nella stima dei costi sono da considerare il rischio connesso allo stoccaggio e i costi futuri per le prossime generazioni, sia nella gestione del rischio che nella manutenzione e monitoraggio dei siti, che andrebbe calcolato a parte in una logica corretta di analisi costi/benefici.”

Ridurre le emissioni non produce ricchezza (economica)

E allora com’è che in tutto il mondo si stanno rovesciando vagonate di dollari e di euro nel finanziamento di tecnologie così poco efficaci? Purtroppo, la colpa non è dello scarso acume di governi e corporazioni, casomai la loro è una scarsa lungimiranza: nel breve termine, infatti, CCS e CCU potrebbero consentire alle aziende più inquinanti di ottenere crediti di emissioni, ossia un lasciapassare per continuare a inquinare come hanno sempre fatto, ritardando il momento in cui saranno costretti ad accodarsi a una transizione ecologica ormai inaggirabile; non solo, il fatto che questi impianti possano usufruire di infrastrutture già esistenti, come gasdotti e siti di stoccaggio, consente di procrastinare anche i costi di decommissioning e di bonifica di alcune filiere fossili.

Il punto è sempre lo stesso, e il rapporto IPCC l’ha sottolineato col pennarello grosso: l’unica scelta sensata per assicurarsi un futuro (e per certi versi, un presente) gestibile è avviare immediatamente una transizione ecologica radicale, e questo significa non solo abbandonare i combustibili fossili a favore delle rinnovabili, ma anche adottare misure per ridurre il consumo di acqua e di suolo, per tutelare la biodiversità e mantenere attivi quei sistemi naturali, come le foreste, le torbiere e gli oceani, che da sempre consentono di catturare e sequestrare carbonio in modo più armonico e funzionale agli ecosistemi.

Le tecnologie di cattura e sequestro del carbonio, allo stato attuale, non sono altro che una pezza costosa e pericolante che avrebbe il solo scopo di procrastinare l’abbandono di un sistema-colabrodo che incardina la propria ricchezza sulla produzione di emissioni. Ma si tratta appunto di una ricchezza meramente economica, e dunque astratta, che cresce a discapito di una ricchezza naturale concreta e data troppo spesso per scontata. Decidere di spazzare sotto il tappeto una quota delle emissioni oggi significa, ancora una volta, lasciare alle nuove generazioni il compito di sollevare quel tappeto domani.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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