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La storia di Ochek, naufrago sulla Geo Barents: “Torturato in Libia, mangiavamo pasta e sonniferi”

La storia di Ochek, migrante 21enne tra i 73 sopravvissuti a bordo della Geo Barents di Medici Senza Frontiere: “Fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia sono stato torturato. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro”.
A cura di Ida Artiaco
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Credits: Nyancho NwaNri.
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"Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici". A parlare è Ochek, nome di fantasia di un 21enne che è tra i 73 sopravvissuti a bordo della Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere in navigazione verso Ancona, dove i profughi saranno distribuiti nei centri di accoglienza nella Marche, in accordo con altre Prefetture.

Ochek, originario dell'Eritrea, ha raccontato la sua storia proprio al team di Medici senza Frontiere, da quando è scappato dal suo Paese prima in Sudan, per sfuggire al servizio militare, e poi in Libia, fino alla partenza alla volta dell'Italia.

Credits: Nyancho NwaNri.
Credits: Nyancho NwaNri.

"Per andare in Libia ho pagato un intermediario – ha detto Ochek -. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non avevo nessun parente in grado di mandarmi del denaro e sono stato costretto a lavorare per lui in una fattoria, con il bestiame. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire. Sono stato rinchiuso in una piccola stanza sovraffollata, con una finestra piccola".

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Poi, una volta è riuscito a fuggire: "Le guardie bevevano e fumavano fino all’alba così alle 2 di notte siamo riusciti a scappare. Io sono andato in un posto dove vivevano altri sudanesi e ho trovato lavoro. Devi essere fortunato, qualcuno ti paga altri no. Io sono riuscito a guadagnare abbastanza per pagare un trafficante. Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15/20 giorni".

Poi sono arrivate le torture: "Fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia sono stato torturato. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto".

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E poi ancora: "In Libia la tortura ti segue dentro e fuori dal carcere o nelle stanze dove ti rinchiudono. Di notte, ti puntavano una pistola alla testa, ti prendevano tutti i soldi e ti picchiavano. Ci facevano mangiare pasta mischiata ai sonniferi e al mattino ti trovavi un morto accanto mentre quello dietro di te era stato torturato. In bagno trovavi chi si puliva le ferite mentre bevevi acqua amara vicino a lui. Quando mangiavi c’era chi ti vomitava accanto. Un mio amico aveva sognato ad occhi aperti di andare in Europa. Al mattino l’ho trovato morto e ho coperto il suo corpo".

Per questo ha deciso di partire in direzione dell'Italia: "Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture", ha detto ancora Ochek, che ha aggiunto: "Ci hanno fatto portare il gommone e ce lo hanno fatto mettere in mare. Siamo saltati su e abbiamo pregato. Ci siamo affidati a Dio e siamo partiti. Le onde ci portavano su e giù ma, nonostante ciò, non avevamo paura fino a che quell’uomo non ha gridato che c’era la guardia costiera libica. Ora sulla nave di Medici Senza Frontiere mi sento al sicuro ma, allo stesso tempo, non sono ancora completamente sollevato perché sono ancora in mare e ho paura di tornare indietro. Non vedo l'ora di raggiungere l'Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto in Libia e in Africa".

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