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Catania, assegnate dopo 25 anni le case popolari nel palazzo che fu simbolo della mafia

Graduatorie che ci mettono anni per scorrere, case troppo piccole per nuclei familiari che devono rispondere ai bisogni di figli con disabilità, errori nella consegna delle chiavi. E, sullo sfondo, la storia di un edificio appaltato nel 1981 e completato dopo quarant’anni. Il Palazzo di cemento di Librino, alla periferia Sud di Catania, è finalmente diventato quello che avrebbe dovuto essere: un complesso di alloggi popolari. Dopo ritardi che sembravano prolungarsi all’infinito.
A cura di Luisa Santangelo
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L'ingresso del Palazzo di cemento
L'ingresso del Palazzo di cemento

Tutt'altro che un palazzo reale, eppure ha avuto perfino la sua zarina. Soltanto che lei era la moglie di un mafioso, latitante per anni prima che venisse arrestato a casa sua, come nei migliori dei cliché. Nella storia quarantennale del Palazzo di cemento di Librino, quartiere satellite alla periferia Sud di Catania, ci sono tutte le contraddizioni del capoluogo etneo e c'è la speranza che, almeno quelle relative all'edificio di viale Moncada 3, possano essere risolte: le nuove case popolari sono state assegnate, le chiavi degli alloggi consegnate, pur lasciando l'amaro in bocca a molti dei 96 nuclei familiari che se li sono aggiudicati. Dopo attese in qualche caso durate decenni.

Nel 1981 i quartieri popolari si costruiscono allo stesso modo in tutt'Italia: ci sono i grandi architetti che li immaginano (a Catania è l'archistar giapponese Kenzo Tange), le ancora più grandi imprese che li costruiscono (in questo caso quella del Cavaliere del Lavoro Francesco Finocchiaro, coinvolto nella tangentopoli etnea di quegli anni) e ci sono i cavilli che li lasciano incompiuti. Così è stato per il Palazzo di cemento di Librino, occupato abusivamente dal giorno stesso in cui è stato lasciato quasi completo, ma senza i collaudi finali. Prima base dello spaccio di stupefacenti e quartiere generale della famiglia del boss Giovanni Arena (la zarina era sua moglie), poi simbolo della mano dura dell'amministrazione comunale che nel 2011 lo vuole sgombro dagli occupanti. Infine, ritardo dopo ritardo, ristrutturato e poi trasformato in ciò che avrebbe dovuto essere da quando è stato progettato, 40 anni fa: un edificio di normali case popolari.

L'11 gennaio 2021 il sindaco di Catania Salvo Pogliese ha partecipato alla consegna delle chiavi: 96 nuclei familiari si sono ritrovati di fronte al cancello di lamiera del cantiere ancora aperto e per la prima volta sono entrati negli appartamenti in cui, sperano presto, traslocheranno. "Io ho fatto richiesta nel 2006", racconta Ignazio, 39 anni e tre figli, al momento disoccupato. Una bambina sorda, un'altra malata di talassemia: gli sono stati assegnati tre vani. "La casa di Barbie", la definisce lui che, fino a poco prima, aveva sperato in "un nuovo inizio per tutti noi". "Io se mi lamento faccio un peccato", dice invece una donna di 28 anni, tre figli anche lei. L'assegnataria dell'alloggio, nel suo caso, è la suocera: vivranno in sei – suocera, figlio, nuora e nipoti – nei quattro vani che hanno ottenuto. "Adesso viviamo in tre vani con mia mamma", spiega lei.

Due vani sono toccati anche a un'altra donna che arriva al Palazzo di cemento con una busta di fotografie stampate: mostrano i liquami fognari, tre stanze in affitto, che invadono l'appartamento in cui vive attualmente. "Non ce la facciamo più. Io non posso fare sforzi perché sono stata operata al cuore, ho un bambino di tre anni e una bambina di dieci. Non è sano vivere in una casa inagibile. Io di questa casa popolare ho bisogno, anche se è piccola". I bambini vivranno nella sala con la cucina, e poi si vedrà. "Quando è stata pensata la ristrutturazione si è immaginato di usare il Palazzo di cemento anche per l'housing sociale – spiega Giusy Milazzo, del Sunia, il sindacato degli inquilini legato alla Cgil – Soltanto che non si era considerata la grandissima carenza di alloggi popolari in città. Il social housing è destinato ai giovanissimi, per cui i due vani possono bastare, ma qui ci sono nuclei familiari con situazioni complesse. Non è facile per loro. Oggettivamente alcune case sono dei buchi".

Rifiutare le case assegnate non è possibile, a meno di non volere finire in fondo a graduatorie che per scorrere ci mettono anni. "Accettiamo perché abbiamo bisogno, è questo il fatto". Lo stesso ragionamento fatto da un'altra donna che, 25 anni fa, ha fatto la prima richiesta per una casa popolare: "Me l'hanno data dopo 14 anni", spiega, accompagnando la sorella che attende di ricevere le chiavi del suo nuovo appartamento al viale Moncada. "Quindi sono 14 anni che io, mio marito e i miei cinque figli viviamo in due vani. Volevamo cambiare e ancora aspettiamo, abbiamo fatto una marea di ricorsi. Speriamo che mia sorella sia più fortunata".

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