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Opinioni

Alle origini della mafia: il caso Rocco Greco tra sfiducia e rassegnazione

La pirandelliana accettazione della giustizia come una “fatalità inovviabile” e la negazione dell’errore, sono gli elementi di quanto avvenuto in Sicilia nel caso di Rocco Greco. Quando la giustizia si ritiene quasi investita di una funzione sacrale, divina e non ammette le sue falle, è il momento in cui in realtà a morire è la democrazia.
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Processo di mafia nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo
Processo di mafia nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo

Nello sguardo di Francesco Greco c’è tutto la stupita rassegnazione del Tararà di Luigi Pirandello di fronte alla legge: “Accettava l’azione della giustizia come una fatalità inovviabile. Nella vita c’era la giustizia, come per la campagna le cattive annate. E la giustizia, con tutto quell’apparato solenne di scanni maestosi, di tocchi, di toghe e di pennacchi, era per Tararà come quel nuovo grande molino a vapore, che s’era inaugurato con gran festa l’anno avanti”. Prima incuriosito, poi diffidente, infine ras-segnato all’ineluttabilità degli incomprensibili movimenti degli ingranaggi. Francesco Greco è siciliano di Gela, ingegnere, giovane, colto, educato. Solo lo sguardo, gli occhi spenti, tradiscono il lutto recente: non esibito, non gridato, non ostentato. Il contrario di quanto, da anni, trasmettono i talk show del dolore. È il figlio di Rocco Greco, morto suicida per restituire onore e futuro alla famiglia. Lui, che dodici anni fa, assieme a un manipolo di imprenditori coraggiosi, aveva detto basta alla prepotenza mafiosa subita fino a quando la sua terra era stata terra di mafia e solo terra di mafia, e aveva denunciato i suoi oppressori, era stato da questi “mascariato”, insozzato, dalle parole di vendetta della stessa mafia.

Era stato accusatore in Tribunale e poi accusato. Aveva avuto ragione in tutti e due i casi, con gli estorsori condannati e lui assolto con formula piena. Eppure. Eppure, nel 2018 era stato cancellato dalla lista dei buoni, era entrato in quella dei cattivi: niente nulla osta antimafia, niente White list, niente più appalti, niente più lavoro, niente più dipendenti. Era stato un doppiogiochista? Un professionista dell’antimafia? Niente di tutto questo. Dalla prefettura di Caltanissetta era arrivato l’altolà “per la sua supina acquiescenza fino al 2006”. Fino a quando, cioè, nella Gela dei cento omicidi e delle stragi, lo Stato non aveva fatto finalmente capolino mettendosi al fianco degli oppressi.

Rocco Greco
Rocco Greco

Oggi per allora, fuori dal contesto, nell’eterno e immutabile presente descritto nella distopica Oceania orwwelliana di “1984” in cui tutto è sempre uguale alla verità-propaganda del Potere. Francesco Greco parla e trova sorprendente il burocratico comunicato della prefettura, diffuso all’indomani della morte del padre. Una nota algida, senza cuore, senza neppure un accenno di circostanza alla tragica morte dell’imprenditore. Una nota che ribadisce la bontà del giudizio amministrativo espresso oggi per allora, e pure allora sarebbe stato sbagliato.

Glauco Giostra, professore di Procedura penale alla Sapienza, componente della commissione per la riforma del codice di rito, ex componente del Csm, in un saggio breve pubblicato nel 2014 su Il Corriere della Sera in cui citava il Tararà della novella di Pirandello, ammoniva: “C’è qualcosa di persino più grave della crisi della giustizia, di cui si parla giustamente tanto: la crisi di fiducia nella giustizia. Per una società democratica è di vitale importanza che il popolo creda nella giustizia amministrata in suo nome; ancora più importante, arriverei a dire, del metodo usato e dei risultati ottenuti. Mette a rischio la propria tenuta sociale una collettività che non sia in grado di consegnare con fiducia a un soggetto imparziale il potere di emettere, al termine di un itinerario che essa stessa ha delineato con le sue leggi, una decisione che è poi disposta a rispettare come verità. Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente ad accettare quella del più forte. La crescente disaffezione per la giustizia, quindi, non può essere sconsideratamente percepita come un incendio al di là del fiume: è, invece, un insidioso agente corrosivo delle già non solide basi democratiche del Paese”.

Processo di mafia negli anni Ottanta a Palermo
Processo di mafia negli anni Ottanta a Palermo

Vale per il processo penale, vale per quello amministrativo (che in questi mesi sta mostrando tutte le sue falle, con tanto di magistrati arrestati per corruzione), vale per quello civile (lungo e tortuoso, fino a diventare la sostanziale negazione dei diritti reali rivendicati da chi non ha la forza economica per sostenere l’estenuante giudizio). E vale per la burocrazia ministeriale, sganciata dalla giurisdizione, in cui è incappato l’imprenditore di Gela. O anche, per esempio, gli anziani genitori di Flavio Russo, un ragazzo ucciso da innocente nel 1992 a San Cipriano d’Aversa, che si sono visti negare il risarcimento perché il papà, nel 1956, aveva subito un processo per atti osceni in luogo pubblico. Vista la morale dell’epoca, forse aveva baciato in strada una ragazza o magari aveva orinato nella pubblica via, cose così che comunque erano state sanate da una sentenza di riabilitazione. Non oggi, ma negli Anni Settanta. Ma anche per loro, oggi per allora, è valsa la non estraneità a “con-testi delinquenziali”. E va a sapere che vuol dire in paesini di poche anime dove sono tutti, ma proprio tutti, parenti di qualcuno.

È  proprio questa astrazione dalla realtà concreta, nel Mezzogiorno soprattutto ma in tutta Italia, ad allontanare i cittadini e a ingenerare quella sfiducia di cui parla Giostra. Un esempio di segno opposto a quello eroico di Greco è arrivato pochi giorni prima del suo drammatico suicidio, a Rozzano, paesino della cintura milanese, dove un uomo indagato per pedofilia è stato ucciso dal padre della vittima. Men-tre era in corso l’indagine, e non in assenza o ritardo o acquiescenza della magistratura. Si dirà: ma l’assassino reo confesso proviene da un contesto criminale. Ma è una obiezione apparente, essendo stato quel gesto applaudito dall’intero milieu di provenienza del morto e della bambina abusata. E va nella stessa direzione la richiesta di legittimazione, sempre e comunque, dell’uso delle armi.

Il problema vero è che questa sfiducia, come scriveva Glauco Giostra, induce alla rassegnazione e alla soggiacenza a chi è in grado di fornire una risposta alternativa e veloce alla richiesta di giustizia. In terra di mafia, alla mafia, ancora in grado di garantire protezione privata. E che potrebbe tornare a essere percepita come il ma-le minore, così come accadde nell’Italia postunitaria quando si pose come argine alle scorrerie dei briganti. Scoraggiante la reazione di altri imprenditori gelesi all’indomani della morte di Rocco Greco: “Se avessimo conosciuto il prezzo del nostro coraggio, saremmo stati zitti o saremmo andati via”.

Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia

C’è tutto il pensiero di Leonardo Sciascia in questa rigida e pericolosa involuzione della lotta alla mafia. In “A ciascuno il suo” il mite e studioso professor Laurana, che ricerca la verità per la verità, muore per aver tradito il proverbio: “Il morto è morto, diamo aiuto al vivo”. Verità che tutto il paese conosceva tranne lui, poco incline ai pettegolezzi. E, morendo, non viene neppure compatito: era stato bollato come “un cretino”. E ignorato è l’avvertimento di Blasco, nella saga letteraria ottocentesca dei Beati Paoli, setta protomafiosa di quel tempo: “Non bisogna per amore di giustizia essere ingiusti”. La risposta, tragicamente attuale fino alle stragi di Palermo, fu “Vacilla soltanto la fede nella giustizia legale; anzi non vacilla, manca addirittura… L’ombra? È necessaria. È la nostra forza e la nostra sicurezza. La giustizia del re è amministrata da uomini che vedono in essa non un dovere, ma il salario”. Teoria che ancora oggi giustifica il farsi giustizia da sé di fronte all’ingiustizia (o ai ritardi) dello Stato nelle sue più variegate articolazioni. Di qui la necessità, vitale, di un ritorno allo spirito autentico della Costituzione e agli appelli del tanto citato ma sistematicamente ignorato Piero Calamandrei (L’elogio dei giudici scritto da un avvocato) per il quale il segreto della giustizia è “in una sempre maggiore umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore”.

La negazione dell’errore, come avvenuto nell’incredibile comunicato stampa della prefettura di Caltanissetta, riconduce invece a un altro, profetico scritto di Sciascia, “Il contesto”, che Francesco Rosi adattò nel film “Cadaveri eccellenti”  nel quale il giudice (l’autorità dello Stato in genere) si ritiene investito di una funzione sacrale, divina, e quindi infallibile per sua stessa natura. Il risultato? Nella finzione, il giudice che nega l’errore muore. Nella realtà, muore la democrazia.

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Rosaria Capacchione, giornalista. Il suo lavoro di cronista giudiziaria e le inchieste sul clan dei Casalesi le sono costate minacce a causa delle quali è costretta a vivere sotto scorta. È stata senatrice della Repubblica e componente della Commissione parlamentare antimafia.
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