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Opinioni

“Aiutiamoli a casa loro”: ma intanto tagliamo i fondi (e ce ne mangiamo la metà)

In modo brutale: con i soldi della cooperazione facciamo quello che serve non tanto per “aiutarli a casa loro”, ma per “aiutare noi stessi ad aiutarli”. In sostanza, i soldi per “aiutarli a casa loro”, li spendiamo noi.
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Sempre più spesso, a commento della cosiddetta emergenza immigrazione, ci sentiamo ripetere la frase tormentone dell’aiutarli “a casa loro”. Cosa esattamente voglia dire non è mai stato chiarissimo, ma la reiterazione di tale concetto è servita a farlo penetrare anche nella polemica politica, fino a diventare un vero e proprio cavallo di battaglia della destra populista e nazionalista (e non da adesso, per la verità). Ma in che modo fino ad ora abbiamo dato una mano ai paesi africani / in via di sviluppo? Quali strumenti mettiamo in capo per aiutarli a casa loro? Che fine fanno le risorse destinate a tale scopo?

Il riferimento non può che essere ai progetti di cooperazione allo sviluppo (qui abbiamo provato ad analizzare nel dettaglio di cosa si parla), che nel corso del tempo sono diventati anche la “leva fondamentale nelle scelte di politica estera italiana, in armonia con gli interventi per il mantenimento della pace e la gestione dei flussi migratori”. In sostanza, nei progetti di cooperazione allo sviluppo non rientrano solo i fondi e le risorse che inviamo direttamente ai Paesi africani (o comunque del cosiddetto Terzo Mondo), ma anche quelli che spendiamo in Italia per tutte le iniziative “connesse” a tale scopo e ad esso collegate. In modo brutale: con i soldi della cooperazione facciamo quello che serve non tanto per “aiutarli a casa loro”, ma per “aiutare noi stessi ad aiutarli”. Complicato? Non tanto, basta considerare i numeri.

Un aiuto in tal senso arriva da Openpolis, che ha curato un approfondimento che ci permette di capire dove vanno a finire le risorse stanziate per la cooperazione allo sviluppo. Come si legge sul blog, dunque:

I fondi bilaterali, cioè quelli che l’Italia gestisce direttamente con i paesi in via di sviluppo, nel 2013 ammontavano a 694mln. Nell’andare a vedere come in realtà questo soldi vengano spesi, scopriamo che la maggior parte dei fondi rimane in realtà nel nostro paese. Oltre il 43% dei 694mln, la fetta più grossa della torta, è destinato alla gestione dei rifugiati politici in Italia.

A seguire nella classifica troviamo infrastrutture e servizi sociali (il 25,56% del totale) e aiuti per i settori produttivi (8,33%). Altra fetta non indifferente è destinata ai costi amministrativi delle operazioni (circa 32mln – 4,66%), altra percentuale che in realtà non finisce direttamente ai paesi in via di sviluppo.

Nel dettaglio, la mappa aiuta a comprendere meglio di cosa stiamo parlando:

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Ma questa ingente massa di denaro dove va e a cosa serve, concretamente?

Proviamo ad analizzare i dati ufficiali (dalla specifica sezione del ministero degli Esteri), questa volta relativi all’anno 2013. Come detto, nel solo 2013 abbiamo impegnato 236 milioni di euro in un progetto gestito dalla prefettura di Palermo per “l’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo dal Nord Africa”, mentre altri 64 milioni di euro sono andati complessivamente alle amministrazioni locali che gestiscono i progetti SPRAR.

Per trovare il primo intervento rilevante al di fuori del territorio italiano bisogna riferirsi alla voce "infrastrutture e servizi sociali", che garantisce "iniziative tese a sviluppare il potenziale delle risorse umane e migliorare le condizioni di vita nei paesi beneficiari degli aiuti" e che finanzia direttamente progetti più o meno rilevanti in particolare in Libia, Etiopia, Sudan, ma anche in Brasile, Perù, Bolivia, Afghanistan e India.

Si tratta della forma che più si avvicina al famoso "aiutiamoli a casa loro" e per il 2013 abbiamo previsto 178 milioni di euro (erogandone finora 140 milioni), una cifra aumentata rispetto al 2012, ma ridotta di oltre la metà, ad esempio, rispetto al 2008 (qui l'elenco completo dei progetti finanziati).

Aiuti diretti li riserviamo poi ai settori produttivi (circa 60 milioni di euro), con progetti di cooperazione su agricoltura, pesca e industria in particolare; discorso simile per l'aiuto umanitario vero e proprio, per il quale spendiamo poco più di 33 milioni di euro (nel 2012 sono stati erogati oltre 100 milioni di euro, nel 2008 circa 70).

Per la riduzione del debito, ormai investiamo solo le briciole. Nel 2013 a fronte di uno stanziamento previsto di soli 3 milioni di euro, sono state erogate risorse complessive per 33 milioni di euro: erano 1,4 miliardi nel 2005, 630 milioni nel 2008, 530 milioni nel 2011, tanto per avere un'idea di cosa parliamo.

Insomma, pure ammettendo che la cooperazione è solo uno degli aspetti dell'aiuto diretto (si fa per dire) ai Paesi del terzo mondo, resta una grande ipocrisia di fondo: aiutarli a casa loro, ma senza spendere troppo e continuando a specularci sopra. Perfetto, no?

(Che poi, sommessamente, ci sentiamo di ripetere un concetto: se l'obiettivo finale deve essere quello del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone particolarmente disagiate, allora non può sfuggire che, come rileva la Banca Mondiale, la leva migliore resta sempre quella "delle rimesse inviate dai migranti nei paesi in via di sviluppo, che hanno raggiunto i 283 miliardi di dollari, una somma superiore a quella disponibile tramite l’aiuto pubblico allo sviluppo o gli investimenti esteri diretti". Insomma, ammesso che abbia senso, e secondo chi scrive non ne ha alcuno, la teoria dell'aiuto a casa loro, beh, diciamo che ci stiamo muovendo con un bel po' di ipocrisia…)

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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