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11 settembre 2001: la guerra civile globalizzata

L’11 settembre 2001 è cominciata una lunga crisi di transizione che ha rimesso in discussione l’ordine mondiale; eppure, guardando alla storia delle guerre mondiali del Novecento, è possibile scorgere le radici dei conflitti di questo nostro presente.
A cura di Marcello Ravveduto
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Dove eravate l’11 settembre 2001? Ricordo precisamente che stavo mangiando una pizza con due amici quando sul televisore del locale cominciarono ad andare in onda le prime immagini delle Torri gemelle fumanti. Ci guardammo negli occhi esterrefatti e il più anziano dei convitati esclamò: «Il mondo occidentale, così come l’abbiamo conosciuto nel corso del Novecento, potente e protagonista della storia planetaria, non sarà più lo stesso, anche il ruolo degli Usa modificherà spostando gli equilibri planetari, quasi certamente, verso l’Oriente».

Erano riflessioni a caldo prive delle necessarie informazioni per realizzare un’analisi compiuta. Eppure dopo l’attacco al World Trade Center la storia si è liberata dei vincoli del secolo scorso sia mettendo in discussione l’ordine mondiale, basato sulla supremazia degli Stati Uniti d’America, sia aprendo un periodo di transizione che avviluppa diversi livelli di discussione: militare, giuridico, religioso, economico, civile, culturale e, naturalmente, politico.

L’analisi del post 11 settembre non può, infatti, essere separata dalla riflessione sul cambiamento di alcuni aspetti strutturali determinatisi nel corso degli anni Ottanta che hanno ristrutturato il capitalismo intorno al pensiero neoliberista e al primato dell’economia finanziaria. Se non si considera questo fattore non è possibile comprendere la successiva crisi dell’Unione Europea, degli Usa, della Nato, dell’Onu e gli effetti negativi propagatisi nei paesi della periferia semicoloniale dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa, coinvolgendo sia i paesi emergenti, sia quelli in perenne stato di povertà. Inoltre, non bisogna dimenticare che la crisi politica ed economica ha rimesso in movimento la sfera religiosa, specialmente il mondo islamico a cui appartengono un miliardo e 600mila persone.

Segni evidenti della crisi sono stati e sono: le rivoluzioni arabe; il movimento degli indignados in Europa e di Occupy Wall Street in Usa; la messa in discussione di categorie come “popolo”, “classe”, “cittadinanza”, “nazione”, “sovranità popolare” e quindi della democrazia di rappresentanza; il depotenziamento della statualità; il declino dell’egemonia statunitense; il rafforzamento della Cina e il nuovo protagonismo della Russia (entrambe con una visione di protezione della regione euroasiatica); la crescita in Asia, Medio Oriente e Sudamerica di potenze medie che hanno conquistato, sottraendola al controllo di Usa e Ue, una precisa leadership regionale nell’ambito di una conflittualità trasversale.

Sono gli effetti della transizione verso il multilateralismo che si contrappone al precedente unilateralismo statunitense (1989/2001): la formazione di raggruppamenti obliqui che cercano di integrarsi alla Globalizzazione incrociando sovranità statale, sviluppo economico, integralismo religioso, dominio militare e potere criminale. La reazione degli Stati Uniti alla costruzione del nuovo ordine, direttamente connesso all’attacco terroristico dell’11 settembre, si è esplicitata nella strategia della “guerra preventiva”. La guerra mondiale contro il terrorismo, lanciata da George W. Bush, ha spazzato via la legalità giuridica del diritto internazionale dando corso alla battaglia planetaria in difesa della civiltà occidentale. È risorto dalle ceneri del Novecento, come una novella Araba Fenice, il concetto della “guerra giusta” che non ha più nemici da combattere ma colpevoli da punire.

Il mondo, imbrigliato nella maglie del neoconservatorismo militare statunitense, si è ritrovato vittima di una poderosa macchina da guerra, scatenata dai paesi capitalisti occidentali e dal braccio armato della Nato, che ha esteso all’intero pianeta uno “stato d’eccezione” permanente con una capitis deminutio universale, proseguita, con altri mezzi, anche da Barak Obama. Cosicché, grazie all’influenza americana, le Nazioni Unite hanno adottato le risoluzioni 1373 del 2001 e 1624 del 2005 che, sfruttando le tradizionali operazioni di peacekeeper e peacemaker dell’Onu, hanno dilatato le politiche di Sicurezza Nazionale statunitensi a tutti i paesi aderenti. La conseguenza diretta è l’affermazione di un diverso concetto di guerra i cui prodromi si erano già avuti nei conflitti mediorientali e africani degli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Come sono queste “nuove guerre”?

Proviamo ad elencare qualche caratteristica: si presentano come conflitti identitari (religiosi, politici, etnici); l’obiettivo strategico è l’espulsione delle popolazione civile con diversi mezzi di persuasione fisica e psicologica; i combattimenti sono decentralizzati senza distinzione tra oppositore interno e avversario esterno o tra pubblico e privato; si violano deliberatamente tutte le convenzioni delle “vecchie guerre” e i diritti umani garantiti al nemico; si formano reti di combattenti informali in cui sono coinvolti eserciti statali e mercenari; la violenza nella maggior parte dei casi si dirige contro i civili annullando la differenza tra belligerante e inerme, tra guerra e guerriglia, tra conflitto armato legittimo e prepotenza criminale illegittima; nel collasso dell’identità collettiva si generano diversità settarie stabilendo nuove distinzioni nel rapporto amico/nemico e ridefinendo i confini della socialità attraverso le lenti della paura e dell’odio; nel lungo periodo si produce una massa, mai avuta prima, di rifugiati e sfollati che emigrano alla ricerca di una sistemazione pacifica; insomma la guerra globalizzata non è la guerra mondiale poiché la sua origine risiede nel superamento dell’identità nazionale a favore di identità partigiane, ritenute prioritarie, che si affermano grazie ad una miscela esplosiva di guerriglia civile, violazione dei diritti umani e criminalità organizzata.

Siamo di fronte ad una guerra civile globalizzata permanente. Una guerra camaleontica che stringe i popoli del mondo nella logica della Crociata del Bene contro il Male, una logica giustificata dalla volontà di difendere il benessere del Mercato, della Democrazia, della Sicurezza collettiva e della Libertà individuale. Ma la storia, come sempre, è l’unico strumento che può aiutarci a comprendere il presente.

Solo in questo modo possiamo accorgerci che la situazione attuale ha radici profonde risalenti alla Prima Guerra Mondiale, definita “guerra totale” da un lato e “guerra giusta” dall’altro. Ma c’è dell’altro. Nella Grande guerra spariscono tutti i canoni dei conflitti armati di ancien regime: l’annichilimento del nemico non si indirizza esclusivamente al personale militare ma anche alla popolazione civile, soprattutto diventa indispensabile, per prostrare il nemico, arrecare ingenti danni economici. Del resto il primo attacco tedesco alla città di Ypres (Belgio) con le armi chimiche, nell’anno 1915, segna la fine della distinzione tra belligeranti armati e civili inermi.

La Seconda Guerra Mondiale rafforzerà questa tendenza e non ci sarà mai più differenza tra civili e combattenti (sempre più i “danni collaterali” saranno parte integrante dello scenario bellico) come dimostra la storia del genocidio degli ebrei, delle deflagrazioni di Hiroshima e Nagasaki, le violenze sessuali dei soldati tedeschi sulle donne dell’Urss e quelle dei soldati sovietici sulle donne tedesche, tanto per fare qualche esempio. In verità gli stati totalitari non sono interessati a fare differenza tra cittadini e militari: Auschwitz, in tal senso, non è una forma di regresso dell’umanità, né il naufragio della civilizzazione; al contrario è la rappresentazione di una modernità pianificata, tecnologica e razionale, che attraversa la linea della quotidianità al punto da diventare una banale “civilizzazione del male”.

In definitiva, se allunghiamo lo sguardo verso quella che fu la “guerra civile europea” (1914/1945) – nel senso di un conflitto armato tra stati nazionali diversi in cui confluiscono rivoluzioni e controrivoluzioni, colpi di Stato, pulizie etniche, disparità sociali, differenze religiose e lotte tra eserciti regolari e formazioni partigiane – ci rendiamo conto di trovare le radici della “guerra totale e permanente” di questa violenta crisi di transizione. Una guerra civile globalizzata che non coinvolge solo forze nemiche appartenenti ad un’unica nazione e a uno stesso Stato ma che colpisce anche le società civili di tutti i paesi implicati nella Crociata contro il Male.

E allora ecco che emerge il paradosso in cui il mondo è caduto dopo l’11 settembre 2001: quando uno Stato o una coalizione combattono il loro nemico politico in nome dell’umanità vogliono soltanto appropriarsi di quel determinato concetto per rivendicarlo nei confronti dell’avversario. In sostanza si pretende di negare al nemico la qualità di uomo, ponendolo al di fuori dalla legge umana; così, ridotta la controparte al rango di bestia, la guerra ascende al più estremo livello di inumanità.

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