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Pensioni da “stakanovisti”: ecco cosa cambia dal 1° gennaio

Tra un mese entrerà in vigore il nuovo sistema pensionistico Il risparmio per lo Stato si aggirerà sui 22 miliardi di Euro per i prossimi 7 anni. Ma a che prezzo per gli italiani? Scopriamo tutte le novità della riforma studiata dal ministro Fornero.
A cura di Biagio Chiariello
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Anno nuovo, pensioni nuova. O meglio, rinnovata. O, se vogliamo essere ancora più precisi, allungamento del periodo necessario per lasciare il lavoro (66 anni e 3 mesi per gli uomini contro i 62 e 3 mesi per le donne). E' questa la novità principale della riforma chiesta fortemente dall'UE, messa in atto dai tecnici e studiata dal ministro Elsa Fornero. Il risparmio per le casse dello Stato si aggirerà sui 22 miliardi per i prossimi 7 anni. Una somma interessante in un periodo in cui l’Italia fatica ancora ad uscire dalla crisi. Ma a che peso per i cittadini?

Sono due i punti fondamentali sui quali si basa la riforma delle pensioni: estensione del periodo di lavoro, dunque, e passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Il Corriere della Sera ci spiega cosa accadrà dal 1° gennaio: «Per tutto il 2012 sono andati in pensione coloro che avevano maturato i requisiti nel 2011 (prima della riforma) ma che dovevano aspettare la cosiddetta "finestra mobile": 12 mesi per i lavoratori dipendenti, 18 per gli autonomi. E quindi per questi ultimi il vecchio regime finirà a giugno prossimo. Poi, ancora per qualche anno, ci trascineremo gli "esodati", i lavoratori che, per evitare restino senza reddito, potranno andare in pensione con le vecchie regole (130 mila i soggetti salvaguardati finora dal governo, ma potrebbe essere necessario ampliare la platea).

Dal 2013 cambia tutto. Come spiega Michele di Branco su Il Messaggero, si potrà andare in pensione di vecchiaia con almeno 62 anni e tre mesi se donne (63 anni e 9 mesi se lavoratrici autonome) e con 66 anni e tre mesi se uomini. La pensione anticipata arriverà solo se si sono maturati almeno 42 anni e 5 mesi di contributi se uomini e 41 anni e 5 mesi se donne. Bene per lo stato, non proprio per la situazione sociale vissuta dagli italiani.

Per le donne l’età pensionabile crescerà gradualmente fino al 2018 per arrivare a essere uguale a quella degli uomini. Fino a tutto il 2012 hanno raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia donne dipendenti con 61 anni (60 più uno di finestra mobile) e lavoratrici autonome con 61 anni e mezzo (60 anni più 18 mesi di finestra mobile), mentre dall'anno prossimo dipendenti dovranno compiere, appunto, 62 anni e tre mesi, le autonome 63 anni e 9 mesi. Dal 2014, invece, saranno necessari 63 anni e 9 mesi per le dipendenti e 64 anni e 9 mesi per le lavoratrici autonome.
Per quanto riguarda gli uomini, la riforma incide soprattutto sulla pensione anticipata (che sostituisce la pensione di anzianità). L'abolizione delle quote e l'incremento di un anno per gli anni di contributi necessari per l'uscita (oltre l'aspettativa di vita) terrà ancora in ufficio e in fabbrica lavoratori che si sentivano in dirittura di arrivo. Se infatti per la pensione di vecchiaia basteranno nel 2013 66 anni e 3 mesi (a fronte dei 66 anni con cui si è usciti fino a fine 2012), per la pensione anticipata ci vorranno 42 anni e 5 mesi di contributi. Anche per gli uomini dipendenti è prevista una eccezione con la possibilità di andare in pensione a 64 anni se si sono maturati entro il 2012 60 anni di età e 35 di contributi.

Il commento di Enrico Marro del Corsera sulle pensioni «per stakanovisti» (così le chiama Angelo Raffaele Marmo in un libro che esce oggi, Le nuove pensioni per Oscar Mondadori) è assai espressivo:

La conseguenza sarà un aumento incredibile dell’età necessaria per lasciare il lavoro, con effetti che finora sono stati trascurati ma che potrebbero creare problemi alle aziende e ai giovani in cerca di occupazione. Il combinato disposto della riforma e degli adeguamenti alla speranza di vita fa sì che il lavoratore, dal 2013, possa scegliere di restare in attività fino a 70 anni e 3 mesi senza essere licenziato (70 anni nel 2012), cioè 4 anni in più della soglia normale di accesso alla pensione di vecchiaia. La legge prevede espressamente anche in questo caso la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (anche se poi è stato attenuato dalla legge 92 del 2012). Prima della riforma, invece, si poteva restare fino a 65 anni e dopo l’azienda poteva licenziare. Non solo. Questo tetto salirà, per effetto degli adeguamenti automatici fino a 75 anni e 3 mesi nel 2065, applicando le stime contenute nell’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato sugli scatti in relazione alle previsioni di allungamento della vita elaborate dall’Istat. In pratica, un giovane che è nato nel 1990, cioè che ha 22 anni e cominciasse a lavorare adesso, potrebbe appunto restare in attività fino a 75 anni. Possibile? Forse si può immaginare per lavori di concetto (difficile per un manovale, un autista, un chirurgo).

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