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Opinioni

Cos’è, come funziona e a chi conviene il nuovo contratto a tutele crescenti

Il Governo vira verso il contratto a tutele crescenti e lascia in sospeso la discussione sull’articolo 18. Una scelta che potrebbe funzionare, vi spieghiamo il perché.
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Con un emendamento all'articolo 4 del cosiddetto Jobs Act (quello che dovrebbe riordinare le tipologie contrattuali) il Governo si prepara ad introdurre nell'ordinamento italiano il "contratto a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio". Si tratta di una misura molto attesa e variamente dibattuta negli ultimi mesi, la cui assenza nella prima stesura del Jobs Act aveva provocato non poche critiche. Ai nostri microfoni, ad esempio, l'economista Tito Boeri aveva bocciato la "prima gamba" del Jobs Act in modo netto: "Se questa è la riforma del mercato del lavoro del governo, devo dire che è molto deludente. Si accentua ulteriormente la differenza tra i contratti temporanei e i contratti a tempo indeterminato". L'accantonamento dell'ipotesi del contratto unico appariva come un errore: "Bisogna intervenire sui contratti a tempo indeterminato, impostando una unica tipologia di accordo, che non ha scadenza e che contempli il fatto che nei primi tre anni si abbiano tutele crescenti che aumentano gradualmente. E dopo tre anni si rientra appieno nella fattispecie attuale, con tutte le protezioni previste oggi per i contratti a tempo indeterminato".

Del resto, gli economisti de La Voce avevano sostanzialmente collaborato alla stesura del disegno di legge Nerozzi, che prevedeva appunto l'istituzione di "un contratto unico a tutele progressive, un modo per conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con le esigenze di stabilità dei lavoratori". L'idea era quella delle due fasi: "una fase d’ingresso, di durata non superiore a tre anni, in cui sono riconosciuti un salario minimo e una tutela obbligatoria in caso di recesso del datore di lavoro per motivi diversi dal licenziamento disciplinare, nella forma di un'’indennità di licenziamento di ammontare pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa (l’entità della compensazione monetaria diventa così correlata alla durata del rapporto). Seguita da una fase di stabilità, con l’'assunzione a tempo indeterminato a decorrere dalla conclusione della fase d’'ingresso". Vale la pena di ribadire che, nella sua formulazione originaria, la proposta prevedeva dunque un paracadute "anche" nel caso in cui il licenziamento avvenga prima dei 3 anni, secondo un meccanismo di tipo progressivo che lega l'indennizzo al tempo effettivamente lavorato.

La proposta del Governo, che sarà resa noto nei dettagli nei prossimi giorni, dovrebbe conservare questo impianto ma eliminare prima di tutto il carattere di "unicità" del contratto. In pratica le nuove norme dovrebbero valere solo per i nuovi assunti ed i riassunti, ma probabilmente nemmeno in maniera esclusiva. È Repubblica a riportare le parole di Ichino (uno dei proponenti), che spiegano meglio l'orientamento della maggioranza: "Non è un contratto unico, che sostituisce tutti gli altri, e neanche l'ennesimo tipo di lavoro che si aggiunge ai precari. Non è altro che il contratto a tempo indeterminato, regolato in modo meno rigido, con una garanzia di stabilità minima all'inizio e via via crescente con il crescere dell'anzianità".

Diverso anche il meccanismo di tutela dei lavoratori licenziati nello "schema Ichino": niente indennizzo nei primi 6 mesi, poi tutele crescenti (anche se il senatore di Scelta Civica si è premurato di avvisare che "anche dopo il terzo anno la scelta aziendale del licenziamento resta insindacabile, salvo il controllo giudiziale sulle discriminazioni e rappresaglie, ma l’impresa vede crescere gradualmente il costo di separazione").

È chiaro insomma che bisognerà capire in che modo sarà declinato il contratto a tutele crescenti, considerando che le differenze fra i due modelli "base" sono sostanziali e avranno un impatto di diverso tipo, sia nei meccanismi di entrata e uscita, che nei rapporti politici con il mondo sindacale. Tuttavia la virata del Governo è decisamente significativa, anche perché consente di accantonare (momentaneamente?) la discussione sull'articolo 18. Polemica, come notato da più parti, alimentata ad intervalli regolari da una certa parte politica e regolarmente minimizzata dal Presidente del Consiglio, che solo ieri alla Camera spiegava: "Guardate i numeri e capite che il tema del reintegro o non reintegro dipende dalla conformazione geografica e non dalla fattispecie giuridica: guardate i numeri". Del resto, dell'impatto reale della revisione dell'articolo 18 sul comparto occupazionale c'è molto scetticismo e non andrebbe dimenticato che la riforma Fornero ne ha già in parte modificato i parametri, sia per quel che concerne la tutela indennitaria per il licenziamento disciplinare, sia soprattutto per i licenziamenti per motivo economico.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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