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Sud Sudan, una scia di sangue lunga decenni

Prima la notizia di oltre 3000 morti, poi la smentita giunta pochi giorni fa dalle Nazioni Unite: quel che è certo è che una terribile spirale di violenza tribale sta trascinando il Sud Sudan verso l’emergenza umanitaria. Il giovane stato africano, nato da un referendum l’estate scorsa, porta già con sé una storia fatta di morte, sangue e devastazione.
A cura di Nadia Vitali
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Prima la notizia di oltre 3000 morti, poi la smentita giunta pochi giorni fa dalle Nazioni Unite: quel che è certo è che una terribile spirale di violenza tribale sta trascinando il Sud Sudan verso l emergenza umanitaria. Il giovane stato africano, nato da un referendum l'estate scorsa, porta già con sé una storia fatta di morte, sangue e devastazione.

Difficile, se non impossibile, e comunque tutto sommato inutile, sarebbe stabilire «chi ha iniziato»; forse si potrebbe risalire all'ultimo furto di bestiame avvenuto, quello che ha scatenato i violenti scontri che in queste settimane stanno vessando la regione di Jonglei, ma comprendere le ragioni profonde di una società che, da decenni, vive tra reciproche vendette e ritorsioni, sarebbe un'operazione quanto meno ambiziosa. Del resto, la nascita stessa del Sud Sudan, avvenuta ufficialmente l'estate scorsa grazie ad un referendum che ne ha dichiarato l'autonomia dal Sudan, si colloca lungo una scia di sangue ininterrotta che affonda le proprie radici in tempi e memorie lontane.

Eccezion fatta per circa una decina d'anni, a partire dal 1955, quando ottenne l'indipendenza dal Regno Unito, fino al 2005 il Sudan è sempre stato attraversato al suo interno da violentissimi scontri tra il nord a maggioranza musulmana ed il sud cristiano: due guerre civili che ne hanno devastato il territorio e l'umanità, generando quella che nel 2004 venne riconosciuta dalla comunità internazionale come «la più grave situazione umanitaria esistente» sul pianeta, portando, nel 2005, ad un accordo che si rendeva ormai necessario per la secessione delle due unità così profondamente divise.

Ma è evidente che la nuova situazione non è bastata a dare l'inizio ad una stagione di pace per un terra la cui storia sembra marchiata a fuoco con i simboli dell'odio e del massacro; e così, questa volta, sono i Nuer ad attaccare i villaggi e le città (Pibor è stata definita dai volontari di Medici Senza Frontiere presenti in zona come una «città fantasma») causando la fuga di migliaia di persone di cui, per il momento, non è più possibile avere altra notizia se non quella che, all'interno della selva, cercano rifugio dai feroci raid degli assalitori. Assalitori Nuer contro i Murle, a loro volta autori di precedenti  feroci razzie; e così via, indietro, all'infinito.

Si era parlato di più di 3000 morti, poi l'ONU ha dichiarato che non ci sono notizie certe relative ad eventuali massacri: al momento, in verità, è semplicemente impossibile fare un bilancio, tra centri letteralmente rasi al suolo ed abitanti scappati ed irrintracciabili. I caschi blu hanno potuto difendere i sudanesi residenti nelle due cittadine di Pibor e Lekongele e, grazie a delle trattative, hanno allontanato i Nuer dalla regione; tuttavia, sarà difficile sapere qualcosa di tutti quelli che vivono in comunità più piccole e villaggi di campagna. Per adesso, le Nazioni Unite hanno sottolineato come in 60 000 necessitino di aiuti urgenti.

La situazione sta dunque assumendo i netti contorni dell'emergenza umanitaria, con migliaia di profughi pronti a riversarsi in luoghi giudicati più sicuri, lontani dalle proprie dimore a rischio: generi di prima necessità, tende, materassi, coperte e zanzariere sono già stati consegnati ai campi dove verranno accolti i disperati in fuga da quel poco o nulla che avevano, distrutti dagli odi antichi che trovano, nelle nuove armi che hanno sostituito gli archi con le frecce, lo strumento di espressione più tragico.

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