Ray Giubilo: “Ho visto il lato nascosto di Sinner. Con la foto di Jasmine Paolini non ho fatto soldi”

C’è una vita intera dietro l’obiettivo di Ray Giubilo. Un viaggio che parte dall’Australia, attraversa la moda, e approda sul campo da tennis, dove da oltre trent’anni immortala i più grandi campioni del mondo. Le sue immagini hanno fatto il giro del pianeta: da Pete Sampras a Venus Williams, da Federer e Nadal fino a Sinner e Alcaraz. In questa lunga intervista ai microfoni di Fanpage.it, il fotografo italo-australiano ripercorre la sua storia fatta di intuizioni, emozioni e scatti diventati iconici. Dalla sua prima foto a Melbourne Park — quando fece infuriare John McEnroe — alla recente immagine virale di Jasmine Paolini, Giubilo racconta un mestiere che è cambiato radicalmente con il tempo, ma che resta mosso da un’unica, incrollabile passione: “Cogliere l’umanità dietro il campione”. E a proposito di umanità, non manca anche un riferimento a Jannik e al suo modo di essere, molto diverso per esempio da quello di Djokovic.
Ray, lei si sente più italiano o australiano?
"Io sono andato via dall’Australia quando avevo sette anni, però ci sono tornato nel 1981 e praticamente da allora non sono mai più andato via. Chiaramente trascorro sei mesi all’anno in giro per i tornei, e questo mi permette di tornare spesso in Italia. Mi sento italiano, senz’altro, perché le mie radici sono italiane: i miei genitori sono ancora vivi e vivono qui in Italia, ho nipoti, quindi mi sento certamente italiano. C’è però una parte di me che resta legata all’Australia, perché l’Australia mi ha dato tanto… vivevo molto l’Australia, e lì è iniziata la mia carriera fotografica".
Quando ha capito che la fotografia sarebbe stata la tua vita, e in particolare quella legata al tennis?
"Che sarebbe stata la mia vita l’ho deciso verso la metà degli anni ’80. Io vivevo in Australia e lavoravo già nel tennis, perché ero l’agente di un’azienda di abbigliamento sportivo, la Sergio Tacchini. Quindi provengo dal tennis come sport: ero immerso in quel mondo, ma la passione per la fotografia va molto più indietro nel tempo. È nata in Inghilterra, alla fine degli anni ’70, quando studiavo lì. Nel mio collegio c’era una camera oscura molto attrezzata, e ho cominciato a sperimentare proprio lì".
Lei ha iniziato nel mondo della moda.
"Nell’83 c’è stato il boom della moda in Australia: cominciavano ad aprire tante riviste, prima ce n’erano solo un paio. All’improvviso, soprattutto gli italiani trapiantati in Australia iniziarono a fondarne di nuove, e così arrivarono fotografi di moda da tutto il mondo per lavorare lì, perché era difficile trovare spazio a New York o a Parigi. Per un fotografo, avere qualcosa di pubblicato è fondamentale, e l’Australia in quel momento offriva tante opportunità. Io ero in contatto con quel mondo anche grazie alla mia compagna dell’epoca, che lavorava per una rivista di moda, e il proprietario di quelle riviste era un mio amico. Questo contatto diretto con l’ambiente della moda mi fece venir voglia di cambiare mestiere, di rispolverare la vecchia passione e applicarla a quel settore".
Come è avvenuto il passaggio dalla moda al tennis?
"Così cominciai a lavorare nella moda: avevo uno studio fotografico e producevo cataloghi, pubblicità, soprattutto per stilisti locali. Però ambivo a qualcosa di più, a riuscire a sfondare davvero in quel campo. Ero nel pieno di quel percorso quando, per puro caso, un amico giornalista venne in Australia per coprire gli Australian Open per la rivista Match-ball. Mi procurò un accredito per il torneo… e da lì, di colpo, mi resi conto che era quello che volevo fare".
E qui arriviamo alla prima esperienza lavorativa agli Australian Open del 1989, come è stato il passaggio dalla moda allo sport?
"Trovarmi a bordo campo, sul centrale di Melbourne Park all’epoca del Rod Laver Arena, e vedere da vicino quei giocatori che fino a quel momento avevo solo osservato dagli spalti… è stata un’emozione fortissima. Poterli fotografare e trovarmi in mezzo a questo nuovo giro di fotografi è stato qualcosa di completamente diverso, anche perché la fotografia sportiva è molto diversa da quella di moda. Nella moda devi costruire una scena, creare qualcosa che decidi tu e che il soggetto interpreta. Nel tennis, invece, devi semplicemente documentare quello che vedi: è tutto naturale, spontaneo, autentico".
Se ripensa a quella prima avventura qual è il ricordo o l'incontro che ricorda con più piacere?
"Forse, se penso al momento più emozionante di quel periodo, dico senz’altro l’incontro con Gianni Clerici e Rino Tommasi. Quello è stato meraviglioso, perché io li seguivo, li leggevo: erano dei miti per me. Ritrovarmi nella stessa sala stampa, parlare con loro, è stato qualcosa di indimenticabile. Sono stati molto gentili, mi hanno aiutato tanto nella mia carriera. Poi con il tempo sono diventato molto amico di entrambi, ma con Gianni avevo un rapporto più stretto. Con lui ho viaggiato, uscivamo la sera, andavamo a cena… era come un fratello maggiore, anche se aveva l’età di mio padre".
Lei si trova in una posizione privilegiata, a bordo campo, un punto di vista che tanti tifosi sognerebbero. Ma riesce a godersi le partite, o il lavoro prende il sopravvento?
"No, non mi godo le partite. Tengo d’occhio il risultato, ma sono concentrato su un giocatore o sull’altro, quindi molti colpi in realtà non li vedo: alcuni li catturo, altri mi sfuggono. Mi godo forse certe partite speciali, soprattutto le finali. Ad esempio, la finale del Roland Garros di quest’anno è stata notevole. Quando arrivi a una finale, ormai hai ‘strafotografato' i giocatori per due settimane: hai preso tutto. A quel punto, la cosa più importante è il risultato finale o se succede qualcosa di eccezionale. In quei momenti sì, posso godermi un po’ la partita."
La sua professione comporta anche un modo di vedere le partite particolare, un occhio speciale.
"Osservi tanto, anche perché guardare la partita ti aiuta a capire molte cose del giocatore. Per fare bene il mio lavoro devo prevedere quello che farà l’atleta, anticiparlo. Quindi sì, certe partite le guardo con attenzione e me le godo, soprattutto quando sono in postazioni elevate — non a bordo campo, ma più in alto — dove si cercano scatti più artistici, sfruttando luci e ombre. Da lassù vedi tutto e puoi davvero apprezzare lo spettacolo".
A proposito della finale del Roland Garros, lei ha visto da vicino Sinner e Alcaraz. Cosa trasmettono al di là dell’aspetto tecnico e tattico che ormai conosciamo tutti?
"Devo dire che non li conosco personalmente. Sinner sa chi sono, ovviamente, e anche Alcaraz: mi vedono spesso, soprattutto nei primi turni. Però non sono il tipo che va a parlare con i giocatori. Finché non vengono loro da me, non cerco il contatto. Non è distanza, è discrezione. Quello che colgo da loro è il lato umano, che un tifoso non può vedere. A bordo campo noti le piccole cose: la preoccupazione, i momenti in cui si sentono sicuri o, al contrario, fragili. È questo che mi colpisce di più, perché in quei momenti sono persone come tutti gli altri. In pubblico non lo sembrano: un ragazzo di 24 anni che ha già guadagnato centinaia di milioni vive in un’altra dimensione. Ma noi che siamo lì per passione — perché questo lavoro lo fai solo se ti piace davvero — cogliamo la loro umanità, che a volte sfugge allo spettatore".
E in Sinner in particolare ha ritrovato questa grande umanità e genuinità, che tutti gli riconoscono?
"Sì, assolutamente. Sinner da fuori sembra perfetto, ma io l’ho visto anche nei momenti di frustrazione: lanciare la racchetta, imprecare, mai in modo eccessivo, ma lo fa. È un ragazzo vero, con emozioni vere. Quando parla al pubblico è profondamente sincero. Ci sono giocatori che sembrano sinceri, ma in realtà recitano. Diciamo che nel tennis ci sono attori e non attori: Sinner non è un attore, Djokovic sì".
Che cosa intende in particolare?
"Djokovic è uno che ama il palcoscenico, gli piace essere protagonista. Forse perché ha sempre dovuto convivere con due giganti come Federer e Nadal, che tutti amavano, e lui è rimasto un po’ il terzo incomodo. È un giocatore che o ti è simpatico o ti è antipatico, non esiste via di mezzo. Secondo me, lui compensa il fatto di non essere amato quanto gli altri due sfruttando il palcoscenico per attirarsi l’attenzione o la simpatia del pubblico. Lo fa bene, e non è un’offesa dire che è un attore: è semplicemente la sua natura. Gente così serve come la manna al tennis, in passato avevamo Nastase, avevamo McEnroe. Il primo per esempio era irascibile ma gli piaceva ‘scioccare' le persone".
Ha citato Federer e Nadal, ai quali ha dedicato due libri fotografici. Che idea si è fatto di loro?
"Mi sento veramente fortunato di essere riuscito a vivere per intero la carriera di questi due campioni. Federer l’ho conosciuto quando era ancora un junior, quindi molto presto. Era una persona bellissima, fantastica, oltre a essere un giocatore incredibile. Io sono sempre stato un ‘federiano': mi piace quel tipo di tennis, quel tipo di gioco. Anche perché io stesso gioco a una mano, quindi il giocatore che gioca così mi ha sempre affascinato. Nadal invece lo conosco un po’ meno. L’ho incontrato quando gli ho consegnato il libro che avevo fatto su di lui, e in quell’occasione fu estremamente gentile. Però Nadal mi piace per altre ragioni: è un guerriero buono. È dolce, sincero, genuino. Non ha mai fatto pesare il fatto di essere il numero uno al mondo. Ha sempre vissuto con la famiglia, è sempre rimasto in Spagna, non ha mai cercato paradisi fiscali. È rimasto sé stesso. Mi considero molto fortunato ad aver conosciuto entrambi, due campioni così diversi ma così autentici".
Ha mai pensato durante il suo lavoro che una foto potesse diventare iconica?
"Non ho mai pensato che una mia foto potesse diventare iconica. Neanche quando scattai quella famosa immagine di Pete Sampras nel 1996 a Wimbledon, quello smash. Mi piacque subito, ma non immaginavo che avrebbe avuto quella fortuna. In realtà divenne iconica quasi per caso: contattai la Wilson per proporre l’uso della foto e loro decisero di farne un poster, con una tiratura iniziale di mille copie. Poi ne vollero altre, ma non trovammo un accordo economico. Nel frattempo, però, quel poster era già diventato ricercatissimo. Ancora oggi, se lo mettessi all’asta — credo di averne due copie — la gente impazzirebbe, perché era il poster della Pro Staff Wilson. È diventata un’immagine iconica, ma al momento dello scatto non l’avrei mai detto".
E quando ha realizzato l'ormai famosissima foto di Jasmine Paolini e della racchetta?
"La stessa cosa è successa con la foto di Jasmine Paolini. Quando l’ho fatta, ho pensato che fosse interessante, carina, ma non ho realizzato subito che sarebbe diventata virale. Quando ho deciso di postarla su Instagram, l’ho fatto di fretta, anche perché tutti mi dicevano che dovevo pubblicare di più. Non sapevo nemmeno cosa scrivere, così ho messo semplicemente ‘Jasmine Paolini – US Open 2025'. L'ho postata in piedi. Poi volevo aggiungere qualcosa, ho guardato la foto e ho pensato che la sua faccia con le corde sembrava una zucca di Halloween. E siccome non era Halloween, l’ho scritta così, con ironia, e l’ho postata. Non avevo idea che avrebbe avuto quel successo: 13 milioni di visualizzazioni su Instagram e 131.000 like. Una cosa fuori dal mondo. Ma al momento, davvero, non ci avevo pensato per nulla".
C'è una foto a cui è particolarmente legato, che la rende ulteriormente orgoglioso del suo lavoro?
Una delle foto a cui ho sempre tenuto tantissimo è una che ho fatto a Venus Williams, scattata dal tetto della Rod Laver Arena. Lei stava giocando il doppio con Gimelstob, e durante un rovescio io stavo sfruttando la luce del giorno, un’ora particolare in cui sulla Rod Laver Arena arrivano ombre lunghe sul campo. Con il verde del campo e Venus che aveva ancora le treccine con le palline nei capelli, ho fatto questa foto dall’alto, su diapositiva. In quel momento non potevo ancora vedere il risultato: ho solo detto ai miei colleghi ‘Penso di aver fatto una bella foto', ma non ne ero certo fino al giorno dopo. All’epoca lavoravamo con il light meter, il misuratore di luce, ma quando scatti su diapositiva non puoi mai sapere se la foto sarà leggermente sovraesposta o sottoesposta. Nella moda potevi fare dei test: sviluppavi le prime sei foto, valutavi se erano troppo chiare o troppo scure, e poi davi indicazioni al laboratorio per regolare l’esposizione. Nel tennis, invece, non c’è seconda possibilità: consegni le pellicole e quello che c’è, c’è. Il giorno dopo, quando vidi la foto, rimasi colpito: era forse la prima vera foto bella che avevo fatto. Venus si vede in diagonale, con una sola gamba illuminata, mentre nell’ombra si distinguono le due gambe e la sua figura intera, allungata. È un’immagine che mi è sempre piaciuta e che ho sempre custodito con affetto. Si può vedere anche sul mio Instagram".
E l'aneddoto più curioso o divertente accadutole in campo durante la sua lunga avventura tennistica?
"Un aneddoto curioso risale forse al primo anno in cui lavoravo all’Australian Open. Non conoscevo ancora bene le regole e non sapevo che i giocatori si potessero infastidire se scattavi nel momento in cui servivano. In campo c’era John McEnroe, e io pensai che sarebbe stata una bellissima foto del suo servizio. Feci click, solo che ero l’unico a farlo. Lui si imbestialì, cominciò a gridare, ma non capì subito che ero io. Al cambio di campo, si sedette e iniziò a inveire contro un altro fotografo, convinto che fosse stato lui. Io, intuendo che tirava brutta aria, mi spostai: salii sugli spalti e da lassù continuai a fotografare. Poco dopo, due game più tardi, McEnroe venne espulso dal campo per cattivo comportamento, era la prima volta che accadeva. Quindi sì, si può dire che la mia carriera nel tennis è cominciata facendo arrabbiare McEnroe".
Come è cambiato il tennis negli anni e di conseguenza anche il tuo lavoro è diventato più difficile?
"Sono cambiate tante cose nel tempo. Sono cambiate le palline, gli attrezzi, ma soprattutto è cambiata la velocità. E dal punto di vista tecnico, la rivoluzione più grande è stata il passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale. Oggi, durante un torneo, scatto in media circa 60.000 fotogrammi, perché le macchine moderne fanno tantissimi scatti al secondo. Poi, nell’arco di un torneo, ne seleziono forse 3.000 o 4.000.
Quando ho iniziato, invece, avevo un budget limitato: per esempio, al Thunder Slam avevo a disposizione 100 rullini da 36 fotogrammi, quindi 3.600 foto totali contro le 20.000 di oggi. Dovevi stare molto più attento, scegliere il momento giusto. Le macchine facevano al massimo 3 o 4 fotogrammi al secondo, quindi scattavi meno ma pensavi di più. Alla fine della giornata consegnavi i rullini e il tuo lavoro era finito: potevi andare a cena, visitare la città, dormire. Oggi, invece, si lavora costantemente".
Mi sembra di capire che sia cambiato tutto.
"Di solito arrivo a un torneo un’ora e mezza prima del primo incontro, diciamo intorno alle 10 del mattino, e nei primi giorni può capitare che torni a casa alle 2 del mattino. Dopo aver fotografato l’ultimo match, ci sono ancora 3 o 4 ore di lavoro al computer: scaricare le foto, nominarle una per una, inserire tutte le informazioni nei file (ora, luogo, giocatore). È un processo lungo, dipende molto dal flusso di lavoro e da quanto sei veloce con le scorciatoie. Il lavoro è cambiato così: non hai più tempo per vedere la città, passi dalla stanza d’albergo ai campi da tennis e poi riparti. Sono cambiati anche i giocatori. Una volta giravano da soli o con un solo allenatore; oggi viaggiano con un intero staff: coach, fisioterapista, preparatore atletico, media manager. È molto più difficile avvicinarli".
I rapporti ora immagino che siano distaccati dunque per tutta una serie di ragioni.
"Ecco perché ti dicevo che non conosco personalmente Sinner e Alcaraz: non sono facilmente accessibili. L’unico modo per avere contatto con loro è lavorare per uno dei loro sponsor, facendo servizi privati. Trent’anni fa, invece, era tutto diverso. Spesso si cenava negli stessi ristoranti, ci si incontrava la sera, si parlava. Le foto, poi, i giocatori non le vedevano subito: magari le trovavano due settimane dopo su una rivista. Oggi le vedono ovunque, immediatamente, sui social".
A proposito di social, dal punto di vista economico, una foto come quella di Jasmine Paolini — diventata virale — ha portato guadagni diretti o è cambiato anche questo aspetto?
"No, non mi ha fatto guadagnare in termini di denaro. Quando ho visto che la foto stava avendo tutto quell’interesse, e che mi contattavano grandi media come CNN, The Guardian, New York Post, e tanti altri da tutto il mondo, invece di pensare: ‘Ok, la pubblico solo se mi pagano', ho pensato fosse meglio dare loro l’opportunità di usarla. Così ci ho guadagnato in visibilità, e infatti è andata proprio così. Forse avrei potuto guadagnare 30.000 euro subito, ma offrendo l’uso gratuito della foto ho ottenuto una pubblicità enorme, che nel tempo può valere molto di più. Preferisco la riconoscenza mediatica ai soldi immediati".
Con Jasmine cosa è successo dopo quello scatto?
"Con Jasmine ci conosciamo: mi vede spesso ai tornei, e dopo quella foto è venuta a ringraziarmi in diretta sul campo. Adesso ogni tanto ci scriviamo: per esempio, due settimane fa mi ha mandato un messaggio dicendomi ‘In Cina sono impazziti per la tua foto'. Non l’ho ancora rivista di persona da allora, ma mi piacerebbe coinvolgerla nell’uso e nella vendita della foto. È un’idea che ho in mente: parlarle e vedere se possiamo farne qualcosa insieme, magari anche del merchandising. A dire la verità, non ho avuto modo di pensarci molto perché da luglio sto lavorando a un nuovo libro, che ho appena finito. Proprio oggi pomeriggio vado in tipografia a vedere le prime stampe. Il libro verrà presentato a Torino due giorni prima delle ATP Finals, e ci sarà anche la foto di Jasmine: sarà sulla fascetta della copertina, in evidenza".
Insomma ci vuole grande attenzione per non perdere la potenzialità di sfruttare il proprio lavoro.
"Magari riuscirò a vendere tanti libri anche grazie a quella foto. C’è una galleria francese specializzata in foto sportive che mi ha chiesto di poter vendere la foto di Jasmine, e secondo loro andrebbe a ruba, ma vogliono l’esclusiva. Io invece preferisco vendere personalmente, fare delle mostre e gestire tutto da solo. Voglio mantenere il controllo, perché se firmi un contratto a vita rischi di perdere i diritti su ciò che hai creato. E oggi tutti vogliono approfittare del fatto che quella foto può essere capitalizzata".