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Marco Bortolotti: “Il sistema tennis non vuole i doppisti. Per guadagnare devi stare nei primi 50”

Dopo l’addio al tennis giocato, Marco Bortolotti a Fanpage.it racconta la nuova vita da allenatore e le difficoltà dei doppisti che chiedono più rispetto nel sistema tennis.
A cura di Marco Beltrami
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Marco Bortolotti ha salutato il tennis giocato senza clamore, ma con la consapevolezza di chi sa esattamente dove vuole andare. Dopo anni di esperienza sul circuito internazionale e successi nel doppio, il tennista emiliano ha deciso di voltare pagina, intraprendendo il percorso da allenatore. Nella nostra intervista, Bortolotti racconta la transizione dal campo alla panchina, le difficoltà economiche del circuito, il valore del doppio e la nuova avventura al fianco di Stefano Napolitano, regalando spunti interessanti su quello che succede anche dietro le quinte.

Marco, che momento è della tua carriera?
"Sono in un bel momento di passaggio. Io ho sempre avuto, da tanto tempo, chiaro nella mia testa che, finita la mia carriera da tennista, avrei voluto fare l’allenatore. Negli scorsi anni avevo iniziato a fare i corsi della FIT, istruttore di primo livello, e proprio quando avevo iniziato avevo vinto. È stato l’anno in cui ho vinto tre Challenger nell’estate nel giro di un mese e mezzo. La carriera di tennis giocato mi richiamava ancora dentro. Quest’anno ci sarebbe stato il corso speciale per diventare subito maestro, ma ho deciso di non farlo perché comunque ero nei primi cento e, nelle settimane di tornei importanti, avrei avuto il corso. Quindi ho deciso di non farlo. Poi un po’ di riflessioni e un po’ di cose che sono capitate quest’anno nella mia vita mi hanno portato a questa decisione".

Hai subito iniziato a lavorare con qualcuno?
"Adesso sto aiutando Stefano Napolitano: dallo US Open ho iniziato ‘morbido', partendo da uno Slam (ride, ndr), poi ha giocato il 15.000 a Bologna e ha vinto il Challenger a Biella. Sono collaboratore del Tennis Club Rungg, che è il nostro circolo di appartenenza sia mio che di Stefano, e quindi tramite loro io ho il compito di aiutarlo".

Nemmeno il tempo di finire di giocare dunque e ti sei subito messo al lavoro quindi.
"La mia ultima partita risale a luglio, a San Marino. Ho iniziato a pensarci da marzo-aprile: non riuscivo a costruire qualcosa con un compagno fisso, non è facile se non ne hai uno stabile. Dovevo ancora investire sia il tempo che il denaro per cercare una situazione, quindi sicuramente fuori dall’Italia, perché non c’è un doppista italiano davanti a me: quelli davanti erano top ten, e quello dietro di me era numero 200. Avrei dovuto cercare una situazione che mi permettesse di allenarmi con il compagno che avrei trovato e continuare a costruire qualcosa, perché cambiando spesso compagno tante volte si ripartiva da capo, e questa cosa mi ha fatto pensare".

Mi sembra una situazione destabilizzante.
"Sì, sì. Poi ho avuto altre cose personali per cui dovevo stare in alcune settimane vicino a casa, e tutte queste cose non hanno fatto sì che il mio inizio di stagione portasse buoni frutti. Alla fine ho deciso: provo con Giorgio Ricca, l’italiano che era dietro di me, vediamo come va. Avendo anche detto a lui: ‘Guarda Giorgio, facciamo quest’estate insieme, però se non vinciamo tre o quattro tornei sappi che la mia strada sarà un’altra'. Dopo San Marino ho fatto quella scelta: avevo già parlato con un mio amico che ha una realtà qui a Verona, poi è capitata l’occasione per una nuova esperienza".

Immagino che anche a livello economico ci sia bisogno di garanzie soprattutto nel doppio.
"Il doppio ha il 20% del prize money totale, quindi l’80% va in singolare e il 20% va in doppio. Diviso due, rimane il 10% al giocatore. È anche vero che potresti dividere l’allenatore con il compagno e magari è un po’ meno stressante la vita, condividendola con un compagno di avventura, di percorso. Per quanto riguarda me, l’investimento di cui ti parlavo era più di tempo o di vita. Sono stato tanto in giro, tanto fuori casa, ho investito tanto in quel senso e, in questo momento della mia vita, non mi sentivo di fare quel passo".

Poi bisognerà sempre trovare anche uno staff che possa aiutarti.
"Sarebbe stato anche economico, perché avevo trovato la persona che mi avrebbe aiutato, e sarebbe stato Alessandro Motti, la persona che poteva aiutarmi a costruire qualcosa e a migliorarmi ancora. Lui ha una determinata esperienza, ha tante partite di doppio alle spalle, mi ha aiutato quest’anno all’Australian Open e avrebbe potuto aiutarmi a crescere ancora come giocatore. L’investimento economico, se l’avessi fatto, l’avrei fatto con lui. Per quanto riguarda il doppio, credo che sia uno di quelli che ne sa di più in Italia. È stato numero 90 del mondo in doppio, ma ne ha giocati tantissimi e conosce tutto il circuito, sia singolare che di doppio. Ho avuto l’occasione, grazie a lui, in Australia, di allenarmi con Jamie Murray, con Venus… belle situazioni che mi ha creato".

Marco ma a livello economico quanto è difficile poi girare e sostenersi nel panorama tennistico attuale?
"Noi europei, e soprattutto noi italiani, siamo abbastanza fortunati ad avere tanti eventi vicino a casa. Io, per esempio, non so quanti Challenger avevo a due ore di macchina: quindi siamo particolarmente fortunati da questo punto di vista, per gli spostamenti. Ovviamente non potevo permettermi un allenatore che girasse con me tutte le settimane. Facevo degli accordi settimanali o giornalieri con un allenatore qui a Verona, vicino a casa, oppure, quando mi spostavo, se veniva via, facevamo l’accordo settimanale. Le settimane coperte erano poche. Ognuno si deve fare i conti in tasca e cercare di bilanciare gli investimenti per non tirarsi il collo".

I guadagni per i doppisti sono quelli che sono.
"Un doppista, per guadagnare, deve stare nei primi 50 del mondo. Per guadagnare bene, o anche solo per guadagnare qualcosa, deve giocare i Masters 1000. E per giocare i Masters 1000 devi essere tra i primi 30 del mondo. Anche perché, comunque, anche i singolaristi giocano: in doppio puoi entrare sia con la classifica del singolo che con quella del doppio. Nei Masters 1000 ci sono più soldi, quindi i singolaristi — non i top 5, ma gli altri — partecipano. Anche Sinner ogni tanto gioca il doppio nei Masters 1000".

Oltre all'abilità, devi avere davvero una passione infinita che ti spinge a giocare il doppio.
"Sì, diciamo che ci sono due scaglioni: quando riesci a giocare gli Slam in modo continuativo, puoi guadagnare qualcosa, puoi essere ‘in verde'. Quando invece giochi stabilmente i Masters 1000, allora guadagni bene. Quelli lì sono i due livelli. Tra il numero 70 e il numero 30 ci sono tantissimi punti, e pensare che i top 30 nel mondo sono davvero pochi".

Con tutto quello che ne consegue, cioè le necessità che ci sono a livello logistico e le spese annesse.
"Come ti dicevo, noi italiani ed europei siamo fortunati, perché comunque io tornavo a casa dopo i tornei la maggior parte delle volte, visto che l’hospitality c’è per il doppio solo finché resti in gara. A meno che tu non condivida la stanza con il compagno, e allora l’hospitality la hai per tutta la settimana. Ci sono anche giocatori che restano qua tutta l’estate — tipo sudamericani, australiani, cinesi — e devono condividere la stanza per sostenere le spese".

Ma come sono cambiate le cose nel doppio?
"Il sistema di punteggio in doppio è molto duro: con il deciding point sul 40 pari e con il super tie-break tu riesci a farti non so quante ore di viaggio, ore di allenamento, per poi giocare 35-40 minuti. Quella è una cosa pesante per i doppisti. Questo sistema di punteggio è stato fatto per far sì che i singolaristi giocassero di più il doppio, ma alla fine i singolaristi, se lo vogliono giocare, lo giocano e non gli cambia molto con il deciding point piuttosto che il super tie-break".

C'è il rischio di fare sacrifici e chilometri e poi giocare pochissimo
"Magari ti alleni 3-4 ore al giorno e poi in campo giochi 40 minuti. L’anno scorso sono andato ad Almaty. Avevo finito a Valencia, sono andato diretto lì: mi sono allenato il giovedì e abbiamo giocato il martedì, o forse addirittura il mercoledì. Mi sono allenato tantissimo, poi abbiamo perso 7-6 7-5 In pratica mi sono allenato 12-14 ore e ho giocato 50 minuti. Il gioco non vale la candela. A me diverte molto giocare la partita, ma così è dura".

Vivere di tennis dopo il ritiro è difficile alla luce di quello che mi hai detto.
"Sicuramente dobbiamo fare qualcos’altro, però credo che la nostra vita — i viaggi, le situazioni che affrontiamo dentro e fuori dal campo, perché dobbiamo organizzarci noi, con viaggi e allenamenti, gestendo tutte le situazioni — ci faccia crescere come persone e ci apra al mondo del lavoro con una mentalità abbastanza matura. Insomma è facile lamentarsi, però bisogna anche vedere tutte le cose costruttive che ci porta il nostro sport, la nostra vita. Vivere di rendita non è neanche così stimolante quando smetti".

Abbiamo visto che agli US Open l'iniziativa del torneo di doppio ad inviti con coppie formate da singolaristi ha fatto molto "discutere". Che ne pensi?
"Io ero là, l’ho visto. Erano assolutamente erano tutti contro Vavassori e Errani, tra i singolaristi che volevano portarsi a casa il bottino e dimostrare che sono più forti dei giocatori di doppio e anche il sistema, perché il sistema non vuole i doppisti. Ci vedono, anche se non sto più giocando come un peso. Qualche singolarista si lamentava che non c’erano abbastanza spazi per loro in determinati tornei, perché ci sono i doppisti che si allenano, ci sono i doppisti in palestra. C’erano un po’ di lamentele insomma".

Immagino la soddisfazione quando a trionfare sono stati due doppisti come Vavassori ed Errani.
"L’altra faccia della medaglia è che un giocatore molto intelligente come Casper Ruud si è tolto il cappello davanti alla professionalità e al livello di gioco di Vava e di Sara. Credo che bisogna ascoltare le voci di persone intelligenti, anche Medvedev. Chi l’avrebbe detto che avrebbe ammesso: "Non riesco più a rispondere da quando la Errani mi ha servito?". Un uomo che ammette una cosa del genere! Noi abbiamo un gruppo dove ci sono tutti i doppisti che scrivevano ogni volta, tifando per Vava, perché comunque era l’unico doppista in gara, l’unico doppista uomo. Poi dopo è entrato anche Christian Harrison".

Insomma il solito dibattito sul dualismo tra coppie di doppisti di professione e singolaristi che giocano insieme. Un argomento tornato d'attualità nella Coppa Davis 2024 con Sinner-Berrettini e Vavassori-Bolelli.
"Quando c’è Sinner, parliamo di un altro livello di giocatore di tennis. Loro due (con Alcaraz, ndr) giocano un’altra cosa, a parte, in questo momento. Singolo, doppio, triplo, puoi metterci quello che vuoi, ma colpiscono la palla in una maniera che non esiste. Possono fare qualsiasi cosa, anche il doppio. Uno può fare qualsiasi cosa, e l’altro fa due o tre cose che si vedono a livello di Virtual Tennis".

Però i singolaristi nel doppio forse portano più appeal.
"Bisogna andare con i piedi di piombo, perché la loro idea è sempre quella di buttare dentro il singolarista nel doppio. Per far sì che il doppio risalti, bisogna che il singolarista sia anche un nome di rilievo. La mia visione, come quella di tanti doppisti, è che serve un lavoro di marketing delle coppie, di sponsorizzazione delle coppie, di far conoscere le coppie al mondo. Se tu guardi il sito dell’ATP, ci sono solo reel di singolo. I reel di doppio li mettono solo quando gioca Zverev o quando gioca un singolarista in doppio. Così non vai a far conoscere le coppie, non vai a far conoscere il prodotto. Agli US Open c’era un solo doppista che era lì solo perché lui ha fatto un po’ di casino, un po’ di movimento mediatico. Sennò loro non avrebbero messo neanche lui".

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Certo che comunque si è notata la differenza tra i doppisti di professione e coppie più o meno improvvisate.
"Sì, sì, questo è vero. Ma alla fine anche Vavassori ed Errani potevano perdere agli US Open, perché con il punto secco può succedere di tutto: può vincere chiunque. Però loro sono professionisti, non hanno lasciato nulla al caso, hanno preparato tutto. Non credo che Fritz e Rybakina avessero giocato un doppio insieme, e nemmeno Ruud e Swiatek".

Parliamo di due sport diversi ancora una volta.
"Magari la coppia di singolaristi è anche più forte, però non c’è lavoro di doppio. Se i due singolaristi si allenano intensamente per fare il doppio, sicuramente diventano capaci. Ma c’è un lavoro, c’è un investimento di tempo e di metodo, svolto in maniera differente. Poi può capitare di tutto, con il sistema di punteggio che c’è. E ci sono comunque singolaristi che giocano bene il doppio: vedi Griekspoor, vedi Jarry, vedi Machac…".

Torniamo su di te, come è cambiata la pressione da giocatore a futuro allenatore?
"La pressione è minore perché la gestisco meglio, ma è più una questione di anni che di cambiamento. Al punto del percorso in cui sono ora, ho più esperienza, quindi riesco a gestire meglio la pressione. Ci sono tante cose che questo tipo di lavoro ti dà, c’è tanto da imparare. Ovviamente, ci sono tanti momenti di difficoltà, momenti di gioia, ma c’è tanto lavoro: bisogna prepararsi e farsi trovare sempre pronti".

Insomma sei molto sereno oggi, ma potresti aver ripensamenti sui tornei?
"Sì, non è stata una scelta improvvisata. Come ti ho detto, ho sempre avuto le idee chiare su quello che avrei fatto alla fine della mia carriera da giocatore. Ci ragionavo da due anni, poi quest’anno ci ho pensato più seriamente e serenamente, e alla fine sono arrivato a questa conclusione. Poi non si sa mai… tanto io fisicamente sto benissimo, quindi se mi viene la voglia di tornare a giocare magari lo faccio".

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