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Ciao Kobe, e grazie di tutto

Questo il ritratto dedicato a Kobe Bryant in occasione del suo addio al basket. Oggi, l’ex campione Nba è morto in un incidente di elicottero.
A cura di Vincenzo Di Guida
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Questo il ritratto dedicato a Kobe Bryant in occasione del suo addio al basket. Oggi, l'ex campione Nba è morto in un incidente di elicottero.

Iniziamo dalla fine. Il 13 aprile 2016 Kobe Bryant in maglia numero 24 dei Los Angeles Lakers gioca la sua ultima partita allo Staples Center contro gli Utah Jazz. Stop.

Non siamo pronti. Lo sapevamo da molti mesi, da quell'annuncio e quel messaggio d'addio al basket, ma non siamo pronti. Kobe Bryant si ritira e il suo lascito è enorme. La portata della sua infuenza nella storia recente del gioco è viva nelle mani e nelle gambe di coloro che ne hanno raccolto il testimone. La storia di Byant è in gran parte la storia della Nba degli ultimi venti anni, nei suoi cambiamenti e nelle sue mutazioni. Una storia più discontinua di quello che è di norma pensare, fatta di momenti da fissare come punti cardine di un percorso in cui procedere a strappi. Il primo (giovane) Kobe, il secondo Kobe (un magnifico tiranno), l'ultimo Kobe (quello maturo, e sotto certi aspetti più umano).

Voleva essere Michael Jordan, dopo Michael Jordan. Voleva essere, e lo è stato per lungo tempo il migliore. "Non andrà via da questa lega con tanti amici, ma con l'enorme rispetto di tutti", per citare le parole di un maestro come Flavio Tranquillo. Non andrà via con tanti amici, perché a differenza di Jordan che univa e avviciniva, Bryant allontanava e divideva. Ossessionato dalla perfezione (aspetto mutuato dal suo idolo e riferimento MJ), compulsivo, solitario, arrogante. Del suo dualismo ai Lakers con Shaquille O'Neal, del suo essere inavvicinabile per gran parte della carriera, della ossessione nel vincere gli stessi titoli di Jordan (ma si è fermato a 5, uno in meno del più grande di tutti), sono pieni i libri, alcuni dei qual scritti proprio dal "suo" allenatore ai Lakers, Phil Jackson. Libri nei quali pur riconoscendone l'eccellenza nel gioco, a tratti ultra-terreno, il Kobe uomo non è esce benissimo, per usare un largo eufemismo.

Ma il talento segue percorsi strani nel manifestarsi. Kobe è sempre stato veramente diverso dagli altri. Anormale. L'infanzia in Italia dagli 8 ai 13 anni al seguito del padre Joe “Jellybean” Bryant, e il passaggio diretto nella Nba saltando il college. Il resto è storia che quasi tutti conoscono: 5 titoli, gli 81 punti contro Toronto il 22 gennaio 2006, Mvp, miglior marcatore, le 2 medaglie olimpiche. Diverso per indole, diverso per essere diverso dal padre. “Jellybean” era istrionico, coinvolgente, divertente, ma con un'etica del lavoro senza mezzi termini scarsa, che non gli ha mai permesso di mettere a frutto nella Nba le sue notevoli qualità. E proprio qui inizia la scalata di Kobe, in un retaggio familiare che lo porterà già a 8 anni ad avere bene impresso nella mente ciò che sarebbe diventato, chi sarebbe diventato.

Ho amato e odiato Kobe. Lo ho amato perché è la più compiuta espessione del giocatore di basket moderno. Le sue movenze da pantera, la sua tecnica, la sua superiore comprensione del gioco. Non gli ho mai visto fare passi, e non i passi Nba, quelli concessi dagli arbitri per lo spettacolo o per la fluidità del movimento. I passi europei, quelli di partenza.

L'ho odiato per il suo egoismo, che nella versione deteriore non era jordaniano, ma semplicemente era l'affermazione del più forte, agli avversari, ai compagni, al mondo. L'ho odiato perché in quella finale del 2010 i miei Celtics meritavano di vincere, ma lui è stato ancora una volta semplicemente Kobe.

Ho amato Kobe perché non si è mai tirato indietro, perché per essere il migliore ha sacrificato tutto alla pallacanestro, perché è caduto nel basket e nella vita (accusato di stupro nel 2004 da una cameriera di un albergo di Denver, è stato poi assolto) e nella pallacanestro (le sconfitte e gli infortuni che lo hanno messo sul viale del tramonto). E quanto più sei in alto, più pesante è la caduta.

Ho odiato Kobe perché troppo poco e troppo tardi si è “dato” a chi lo amava, abbattendo quei muri che lo rendevano magnifico, ma quasi terrificante.

No, Kobe non è il mio giocatore preferito, che peraltro viene anche lui da Phildelphia, è nato nello stesso anno (1978), ha giocato nello stesso ruolo, e di nome fa Richard e di cognome fa Hamilton. Ma Bryant è stato come Jordan, quello che ogni ragazzino con un pallone di basket tra le mani vorrebbe essere. Quello del tiro per vincere. 5, 4, 3, 2, 1…

Ho amato e odiato Kobe, non sempre l'ho capito, e ora che non gioca più, mi manca tanto. Il suo lascito è enorme, e la sua lettera di addio è amore puro per il basket, per qualcosa che è “più di un gioco”. E allora salutiamoci così Kobe. Le hai dato il cuore, è questa è l'unica cosa che veramente conta.

La lettera di Kobe: "Caro basket, ti amerò per sempre"

Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te.

Un amore così profondo che ti ho dato tutto dalla mia mente al mio corpo dal mio spirito alla mia anima. Da bambino di 6 anni profondamente innamorato di te non ho mai visto la fine del tunnel. Vedevo solo me stesso correre fuori da uno. E quindi ho corso. Ho corso su e giù per ogni parquet dietro ad ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno ti ho dato il mio cuore perché c’era tanto altro dietro. Ho giocato nonostante il sudore e il dolore non per vincere una sfida ma perché TU mi avevi chiamato.

Ho fatto tutto per TE perché è quello che fai quando qualcuno ti fa sentire vivo come tu mi hai fatto sentire Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere un Laker e per questo ti amerò per sempre. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Questa stagione è tutto quello che mi resta. Il mio cuore può sopportare la battaglia la mia mente può gestire la fatica ma il mio corpo sa che è ora di dire addio. E va bene. Sono pronto a lasciarti andare.

E voglio che tu lo sappia, così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme. I momenti buoni e quelli meno buoni. Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo. E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò, che rimarrò per sempre quel bambino con i calzini arrotolati bidone della spazzatura nell’angolo 5 secondi da giocare. Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1… Ti amerò per sempre, Kobe.

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