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Pietro Strada: “Quando mi ruppi il ginocchio neanche mia madre si comportò come fece Ancelotti”

Pietro Strada a Fanpage.it racconta il suo percorso fatto di determinazione, passione e amore per il gioco: oggi ricopre il ruolo di scout per il settore giovanile dell’Atalanta, ma il suo viaggio nel mondo del calcio lo ha visto sfiorare la Nazionale Italiana dopo aver fatto tanta gavetta.
A cura di Vito Lamorte
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C’è chi nasce con il pallone tra i piedi ma deve fare i conti con tante difficoltà per cercare di continuare ad inseguire il sogno. Pietro Strada appartiene a questa categoria. Dalla Serie C con l'Ospidaletto agli stadi di Serie A e la Champions League, il jolly offensivo ha collezionato 426 presenze e 71 reti nei professionisti, di cui 43 presenze e 5 reti in Serie A e 127 presenze e 21 reti in Serie B. Ha sfiorato la Nazionale Italiana e il Mondiale del 1998 ma ha dovuto fare i conti con tantissimi infortuni che avrebbero potuto segnare la fine della sua carriera: Strada ha imparato a rialzarsi, partita dopo partita. Oggi il 55enne è un dirigente sportivo e ricopre il ruolo di scout per il settore giovanile dell'Atalanta, dopo aver lavorato per l'Inter, il Brescia e Feralpisalò; continuando a inseguire quel sogno che ha guidato i suoi passi da calciatore. A Fanpage.it Pietro Strada, tra ricordi vividi e riflessioni sul calcio moderno, ci racconta il suo percorso fatto di determinazione, passione e amore per il gioco.

Cosa fa oggi Pietro Strada?
"Lavoro per il settore giovanile dell'Atalanta. Mi occupo dei ragazzi tra i 15 e i 20 anni, sia in Italia che all’estero. Prima ho fatto lo stesso lavoro per quattro anni all’Inter".

È vero che dopo essersi ritirato aveva lasciato il mondo del calcio per lavorare presso un gruppo bancario che si occupava di leasing e finanziamenti, prima di diventare dirigente? 
"Sì, per un gruppo che si occupava di leasing. Non volevo restare nel calcio subito. Poi Corioni mi richiamò per lavorare nel settore giovanile e da lì non ho più smesso. Era destino".

Strada in campo con il Parma.
Strada in campo con il Parma.

Da osservatore privilegiato, cosa è cambiato nel calcio dei giovani rispetto ai suoi anni?
"Molto. I ragazzi oggi toccano meno il pallone. Una volta si giocava ovunque, ora solo in allenamento. E poi c’è troppa pressione dai genitori: hanno aspettative enormi, spesso più per sé stessi che per i figli. Questo non aiuta".

Un'altra curiosità: si parla spesso degli spropositati ingaggi dei giovani calciatori e della difficoltà nelle gestioni economiche. Lei se lo ricorda il suo primo stipendio?
"(Ride, ndr) Pochissimo, un minimo federale. Ma la sensazione di essere pagato per fare una cosa che ami non ha prezzo. Ti senti fortunato".

Facciamo un passo indietro e parliamo dello Strada calciatore: lei è cresciuto nell’Ospitaletto e ha esordito tra i professionisti a 16 anni…
"Sì, grazie a Gigi Maifredi, che era il nostro allenatore. Con lui vincemmo il campionato di C2 e poi mi portò al Bologna. A 17 anni esordii in Serie B. Sembravo lanciato, ma alcuni infortuni mi hanno rallentato".

Pietro Strada in campo nel grande Parma degli anni ’90.
Pietro Strada in campo nel grande Parma degli anni ’90.

Si parla spesso di Gigi Maifredi e i giudizi sono spesso contrastanti: ci può dare il suo punto di vista?
"Un innovatore, senza dubbio. Giocava a zona quando tutti marcavano a uomo. Insieme a Sacchi ha cambiato il calcio italiano. Aveva idee moderne, una preparazione atletica diversa, e una grande autostima. Diceva: ‘Tra due anni allenerò la Juventus'. E ci arrivò davvero. Magari non tutti lo capirono, ma era avanti".

Una tappa fondamentale della sua carriera è stata Salerno: in granata ha vissuto stagioni importanti, tra cui la promozione in Serie B con Delio Rossi. Che ricordi ha di quegli anni e del legame con la piazza?
"Assolutamente fondamentale. A Salerno sono rinato. Sono arrivato che non ero nessuno e sono andato via da giocatore ritrovato: l'anno della promozione sono stato premiato come miglior giocatore della Serie B. Con Delio Rossi abbiamo giocato un calcio spettacolare, simile a quello di Zeman. Ancora oggi i tifosi ricordano quella squadra".

Poi l’incontro con Carlo Ancelotti a Reggio Emilia: che tipo di rapporto si creò con lui e quanto fu determinante per il suo salto al Parma?
"Carlo è stato decisivo. A Reggio Emilia mi ha fatto crescere, a Parma mi ha consacrato. È una persona straordinaria, umile, umana. Ti racconto un aneddoto: quando mi ruppi il ginocchio, venne due volte in ospedale a trovarmi. Neanche mia madre lo fece (ride). È un uomo vero".

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A Parma arrivò la Serie A, la Champions League e perfino la chiamata in Nazionale. Cosa significò per lei vivere quel momento così alto della carriera? Se lo sarebbe mai immaginato dopo il brutto infortunio subito?
"Onestamente no. Ho fatto tutta la gavetta: C, B, poi A e Champions League. Non mi ha regalato nulla nessuno. A Parma ero al top, mi era appena nato mio figlio e arrivò anche la pre-convocazione in azzurro. Poi mi ruppi il ginocchio a Dortmund. Quella è stata la mazzata più dura della carriera".

Ecco. Proprio nel momento migliore, un nuovo infortunio la costrinse a fermarsi. Se potesse tornare indietro, c’è qualcosa che avrebbe fatto diversamente per proteggersi di più o cambiare destino?
"Con fatica. Soprattutto perché fisicamente non sono più tornato quello di prima. Però ho continuato a giocare fino a 38 anni, reinventandomi. Il calcio ti insegna a rialzarti".

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