Lulù Oliveira: “Vivevo in una baracca, i primi soldi da calciatore li usai per costruire casa”

Luís Airton Oliveira Barroso per tanti tifosi è solo Lulù perché era come uno di famiglia. Sapevi che potevi contare su di lui in ogni momento. A Cagliari e a Firenze il suo nome fa sempre tornare un sorriso sulla faccia di chi lo ha visto giocare. Grazie alla sua rapidità e alla sua abilità nel dribbling, Lulù era molto bravo sia a far gol che a mandare in porta i compagni: pur giocando attaccante esterno è andato spesso in doppia cifra e anche in Belgio, soprattutto i tifosi dell'Anderlecht, ricordano ancora le sue giocate.
‘Il Falco', così era stato ribattezzato perché festeggiava aprendo le braccia come due grandi ali, è stato inserito nella Hall of Fame del Cagliari e dopo diversi anni di lavoro con i settori giovanili e dilettanti sta per intraprendere una nuova avventura con il Riccione Women.
A Fanpage.it Lulù Oliveira ha fatto un viaggio nella sua carriera, dagli inizi in Brasile fino all'approdo in Europa e alle esperienze italiane: il Cagliari e la Fiorentina, il Belgio e la Seleçao, l'infanzia e le esperienze post-ritiro.

Cosa fa oggi Lulù Oliveira?
"Quando finiscono le vacanze inizio una nuova avventura come allenatore con la squadra femminile di Riccione, è la mia prima volta. Prima ho fatto sempre giovanili e adesso inizio questa nuova parentesi. La preparazione inizia il primo settembre. Io alleno da tanti anni ed essere sempre dentro al calcio per me è importante. È sempre stata la mia vita".
Il pallone al centro della vita. Quando è iniziato questo amore?
"Io da piccolo giocavo in strada in Brasile, non ho fatto nessun settore giovanile. Gli amici più grandi mi portavano con loro perché ero bravino e passavamo le giornate a giocare a calcio. Oggi i ragazzi giocano con i pari età anche con le divisioni fatte nelle scuole calcio o nei settori giovanili ma io ho sempre giocato con quelli più grandi. Appena trovavamo uno spazio per giocare eravamo pronti a sfidarci. Io ho iniziato nella squadra del mio quartiere e poi sono entrato nel Tupan, da lì è iniziato il mio viaggio in questo mondo".
L’approdo in Europa ha cambiato la sua vita?
"Sono andato all’Anderlecht e mi ha cambiato la vita. Io vengo da una famiglia poverissima e dovevo aiutarla. Ci ho provato con tutte le mie forze e ci sono riuscito. Il 29 novembre 1985 sono arrivato in Belgio e camminavo con gli stivali in mezzo alla neve, che io non avevo mai visto. Fra me e me pensavo ‘Ma dove sono finito!”. Ho avuto qualche difficoltà per il clima e per la lingua ma con grande forza di volontà e sacrifici sono riuscito a superarle. Io ci ho sempre creduto, anche dopo le prime partite un po’ complicate. Fa parte della mia storia. Negli anni mi sono sentito dire che ero un fortunato a vivere di calcio ma io so i sacrifici che ho fatto per arrivare a certi livelli".

Dopo il Belgio, ecco l’Italia. Come fu l’impatto con Cagliari e la Serie A?
"Il Cagliari è venuto a vedermi due volte e quando mi dissero del loro interesse io non sapevo neanche dove fosse questa città. “Dov’è Cagliari”, ho chiesto… poi quando sono arrivato mi sono subito innamorato perché mi sembrava di essere in Brasile. Arrivai insieme ad un giornalista belga che doveva fare un servizio e quando misi piede al Poetto capii che era il posto giusto. Così è stato".
In Sardegna ha vissuto momenti magici: ci racconta un aneddoto di quella magnifica cavalcata in Coppa UEFA?
"Noi ci sentiamo spesso con i compagni di quel periodo e nella chat ricordiamo di quella stagione. Eravamo un bel gruppo e siamo arrivati quasi alla finale. Abbiamo battuto la Juve a Torino e poi abbiamo vinto con l’Inter in casa, ribaltando il risultato. Poi perdemmo al ritorno perché pensavamo di avere fatto un passo in avanti. Io ho sempre detto che se avessimo incontrato l’Inter nella partita secca, tipo una finale, poteva succedere di tutto ma nel doppio confronto ci poteva stare di perdere“.
Si è parlato molto di quella semifinale contro l’Inter: Oliveira cosa vuole dire a distanza di tanti anni?
"Spesso i tifosi ci hanno fatto domande su possibili combine rispetto a quella partita ma io rispondo sempre allo stesso modo: potevamo diventare degli eroi arrivando in finale, e magari vincendo il trofeo, c’erano tanti soldi di premio e ci vendevamo la partita? Ci avevano promesso un sacco di soldi. La gente ha i dubbi perché ha vinto un Cagliari troppo diverso da quello della partita d’andata ma ci sono delle gare che vanno così. Era la prima volta che il Cagliari arrivava a quel punto in un torneo europeo e non aveva nessun senso fare discorsi del genere".

Anche Firenze è stata un’altra tappa incredibile per lei…
"Sono andato a Firenze quando c’era Ranieri. Il giorno del mio arrivo lì, c’era lui che mi aspettava nel suo ufficio e aveva un foglio bianco sulla scrivania: mi sono seduto e abbiamo iniziato a parlare su dove potessi giocare io. La nostra prima partita la perdemmo 4-2 col Vicenza con poker di Otero ma eravamo convinti di avere una grande squadra e poi lo abbiamo dimostrato".
La Fiorentina poteva vincerlo davvero lo Scudetto nel 1998-1999?
"Io credo di sì perché eravamo forti e siamo stati campioni d’inverno. Nella partita col Milan si fece male Batistuta e cambiò un po’ le cose. Poi Edmundo tornò in Brasile per il carnevale e la situazione si è complicata".
Di quell’anno si ricorda spesso l’infortunio di Batistuta e Edmundo che se ne va Carnevale di Rio: è vero che voi compagni gli chiedeste di non andare ma lui non volle saperne?
"Tutti gli chiedemmo di restare per darci una mano ma lui non volle saperne. Lui l’aveva scritto nel contratto questa cosa qua, ad esempio io, pur essendo brasiliano, non ci tengo molto ma tanti sono molto legati a questa tradizione. Quindici giorni in Brasile sono tanti in quel periodo dell’anno".

A proposito di Brasile, perché Oliveira scelse la nazionale del Belgio e non la Seleçao?
"Io ho avuto anche qualche problema con mio padre per questa cosa. Mio papà disse che mi voleva vedere con la maglia della Seleçao quando stavo partendo per il Belgio e poteva davvero essere così: io mi sono sposato in Belgio e ho preso la cittadinanza anche perché il quel momento non c’era ancora la legge Bosman e potevano giocare solo tre stranieri. Nel mio periodo migliore all’Anderlecht mi chiamò il secondo di Falcao, che era CT del Brasile, per dirmi che voleva convocarmi. Mi tornò in mente quello che mi disse papà. La mia documentazione per la cittadinanza era ormai a posto e dissi di no. Uscì un articolo su un giornale brasiliano, che venne portato a mio padre da un suo amico, dove c’era scritto che avevo rifiutato la convocazione ma senza nessuna motivazione: da quel momento papà non mi ha più parlato. Anche quando telefonavo e parlavo con mia madre lui era lì vicino ad ascoltare ma non voleva parlarmi. Lo portati in Belgio per convincerlo ma lui voleva vedermi con la maglia verdeoro e non mi ha mai perdonato quella scelta".
Ha giocato con campioni del calibro di Batistuta, Francescoli, Rui Costa… chi è stato il compagno con cui ha avuto l’intesa migliore?
"Un compagno favoloso è stato Dely Valdes, ma dietro alla nostra intesa c’erano i piedi e l’intelligenza di Matteoli. Dietro ad ogni attaccante c’è sempre qualcuno che ti permette di fare gol. A Firenze ho avuto un capitano favoloso come Batistuta e lui è stato davvero un grande: è stato un vero capitano, che s’allenava e giocava sul dolore per dare l’esempio a tutti".
E l’allenatore con cui aveva maggiore feeling?
"Ricordo sempre questo aneddoto con Mazzone, che non mi voleva vedere con capelli lunghi, magliette sgargianti e orecchini. Un giorno Francescoli, che parlava francese e mi aiutava per le traduzioni, mi disse che il mister era un po’ arrabbiato con me. Io in Belgio mi vestivo così e mi sembrava normale ma piano piano mi fece cambiare idea. Lui, Tabarez, Bruno Giorgio, Malesani e Ranieri mi hanno dato tanto. Posso raccontare un aneddoto per far capire la grandezza di Malesani".
Certo. Prego…
"Era da qualche domenica che non facevo gol e capisci bene che per me non era facile in quel momento. Pensavo solo a quello ed era anche peggio. Ero sempre un po’ giù e un giorno lo incontrai sul campo di allenamento, mi chiamò e mi disse ‘Cos’hai Lulù?’. Io risposi ‘Lo sai anche tu mister’ ma lui mi incalzò ‘E tutto quello che fai di solito in campo.. dribbling e assist per i compagni? Per me è più di un gol’. Dopo quel momento, quell’anno sono riuscito a fare 15 gol in campionato. Mi ha sbloccato a livello mentale".
Quanto è diversa la Serie A di oggi da quella dei suoi anni?
“È totalmente diversa. In quel periodo c’erano i migliori giocatori del mondo qui. È cambiato tanto anche il modo di giocare ma non ci sono calciatori che superano l’uomo e creano superiorità. La cosa che mi dà più fastidio è vedere giocatori che arrivano sul fondo e non hanno coraggio di provare l’uno contro uno o non fanno il cross per tornare indietro per cercare spazio dall’altra parte. Ci vorrebbe un po’ più di coraggio da parte dei calciatori, più personalità…".
Anche gli ingaggi dei suoi anni non erano come quelli di oggi: si ricorda cosa ha fatto con il primo stipendio da calciatore?
"Alcuni ingaggi di oggi sono esagerati, anche per ragazzi molto giovani. Io i miei primi stipendi li mandavo quasi tutti in Brasile per fare la casa nuova. Con la mia famiglia abitavamo in una baracca e quando pioveva entrava l’acqua, ma poi ne abbiamo costruito una e poi ho aiutato anche mia sorella e mio fratello. Sono riuscito a migliorare un po’ la vita della mia famiglia, e per me era la cosa principale".