video suggerito
video suggerito

Lorenzo Paramatti, l’ultimo calciatore italiano in Israele: “Avevo la cabina armadio: era un bunker”

L’ultimo calciatore italiano a giocare in Israele racconta qual è stata la sua esperienza e cosa ha provato quando, il 7 ottobre 2023, si ritrovò in uno scenario di guerra dopo l’attacco di Hamas. “Vedevo le scie dei razzi anti-missile. Avevo un bunker in casa, mi dissero: chiuditi qui e restaci, non accadrà nulla”.
A cura di Maurizio De Santis
175 CONDIVISIONI
Immagine

Lorenzo Paramatti è stato l’ultimo calciatore italiano a giocare in Israele. Il 7 ottobre del 2023, il giorno in cui Hamas sferrò l’attacco, era a Petah Tikva, città del distretto centrale, a est di Tel Aviv, perché tesserato per il Maccabi Petah Tikva. Oggi è al Castelfidardo in Serie D e di quell’esperienza durata pochi mesi ricorda tutto. Nell’intervista a Fanpage.it racconta come ha vissuto lì, cosa significa trovarsi nel bel mezzo di un attentato terroristico in un Paese in guerra, il rapporto coi compagni di squadra pronti a togliere la divisa da calciatore per indossare quella militare e andare a combattere.

Come è finito a giocare lì?
“Un giorno il mio agente mi chiamò e mi disse che c’era questa possibilità. Fu l’ennesima tappa di un percorso che all’estero mi aveva portato già al Craiova in Romania”.

Il 7 ottobre 2023, quando Hamas scatenò l’assalto terroristico, si trovava nella capitale, a Tel Aviv: cosa le è rimasto di quel giorno?
“Mi ricordo che al mattino venni svegliato da alcuni boati e poi sentii anche il suono delle sirene. Non mi sono reso conto subito di cosa si trattasse perché una situazione del genere non era mai capitata da quando ero lì. Solo in un secondo momento siamo stati informati dalla società, che ci spiegò cosa era successo”.

Com’è il suono delle sirene di guerra e, avendole sentite per la prima volta nella sua vita, che sensazione ha provato?
“Vivevo in un palazzo vicino a un centro commerciale molto grande e la prima impressione che ebbi fu quella della classica sirena d’allarme che era suonata all’interno della struttura. Poco dopo ho capito che non poteva essere così perché era sabato e ricorreva lo Shabbat, che inizia al tramonto del venerdì e termina un'ora dopo il tramonto del sabato. In quel giorno tutti i negozi, eccezion fatta per le zone turistiche, sono chiusi. Realizzai che c’era incongruenza tra quello che pensavo e quello che era realmente successo. Il boato delle esplosioni mi aprì gli occhi… erano i razzi che erano stati intercettati dal sistema di protezione”.

Ha mai visto le traiettorie dei missili o i colpi della contraerea partire?
“Sì, dalla finestra di casa mia. Soprattutto alla sera perché di giorno si vedevano solo delle scie come quelle degli aerei in cielo. Di notte, invece, si vedevano questi pallini rosso fuoco che percorrevano il cielo e poi facevano un bagliore improvviso. Nel momento in cui s’illuminavano maggiormente era perché venivano intercettati dalla contraerea ed esplodevano in cielo”.

Ha mai pensato di morire in quei momenti?
“Ho avuto paura. Ma la verità è che per noi stranieri, la sera del giorno stesso in cui c’è stato l’attacco, la società aveva organizzato voli di rientro nei nostri Paesi. Sono rimasto meno di un giorno perché il club è stato molto tempestivo nel preparare i nostri trasferimenti. In ogni squadra c’è un massimo di sei stranieri e tutti, anche quelli in altre squadre, sono stati rimandati a casa. Inizialmente i campionati vennero bloccati per riprendere e tornare a una pseudo-normalità dai primi di dicembre. Mi richiamarono e ci tornai per obblighi contrattuali, poi a febbraio mi sono svincolato”.

Come passò quella giornata in cui avreste dovuto giocare e tutto si fermò: arrivarono messaggi? Cosa vi dicevano? È stato allora che, indirettamente, la guerra è entrata anche dentro casa sua?
“Non riesci neanche a metabolizzare cosa succede perché è una cosa talmente nuova e inaspettata, a cui non siamo abituati, che mi è sembrato tutto così surreale. Mi sono reso veramente conto della situazione solo in un secondo momento, quando sono tornato a casa e ho ripensato all’accaduto. Solo allora ho capito la gravità di quello che era avvenuto”.

È vero che aveva casa nei pressi di un ospedale? E quanto era lontana Gaza dalla sua abitazione?
“Gaza era a un’ottantina di chilometri da casa mia, quindi nemmeno troppo lontano. Nei pressi dell’edificio dove abitavo c'era una struttura sanitaria molto grande. Nel giorno dell’attacco ci fu un continuo via vai di elicotteri e dalla finestra del mio sedicesimo piano vedevo la pista di atterraggio. C’erano ambulanze che prelevavano le persone e le portavano all'interno dell'ospedale”.

Ha mai pensato di restare?
“Mi sono trovato in una situazione particolare, anche calcisticamente parlando, perché comunque le regole dicono che nell'arco di una stagione un giocatore professionista può giocare al massimo per due squadre. Io avevo già iniziato con il Craiova in Romania e avevo già giocato anche in Israele quindi non avevo la possibilità di fare un altro cambio. La mia idea, ovviamente, era andare via per sicurezza personale, ma soprattutto perché la situazione era diventata molto pesante. Non solo per me ma anche per tutti i miei cari che temevano mi potesse accadere qualcosa”.

Com’è stato ambientarsi in un Paese che vive in uno stato d’allerta continuo?
“Quando sono andato lì sapevo benissimo quale fosse il contesto e la situazione sociale, politica e religiosa. Ma quando sono arrivato non si percepiva nulla, mi sembrava tutto molto normale. Ho trovato un paese molto accogliente nel quale mi sono integrato bene anche con gli altri stranieri, perché comunque al di fuori del calcio c'è tantissima gente di altri Paesi. E a Tel Aviv si vive bene, c'è una qualità di vita molto importante. Ero lì per giocare a calcio, quindi ero riuscito ad ambientarmi bene, anche se il tempo che sono rimasto là è stato veramente poco. Sono arrivato a fine agosto e i primi di ottobre sono venuto via, per poi tornare a dicembre e rientrare in Italia ai primi di febbraio”.

Paramatti in azione col Maccabi Petah Tikva.
Paramatti in azione col Maccabi Petah Tikva.

Ricorda un episodio, una circostanza, anche precedente al 7 ottobre, in cui ha avvertito di trovarsi in un paese in conflitto con un altro?
“No, non l'ho mai percepito. Lì era la normalità vedere una città molto controllata, dove erano sorvegliate le strade e gli edifici pubblici, ma niente lasciava pensare che da lì a poco ci sarebbe stata una guerra vera e propria”.

Ha mai notato qualcosa che l’ha stranita nel modo in cui si parla di Gaza e della Palestina lì?
“Onestamente non se ne parlava, perché sono andato lì per questioni lavorative, giocare al calcio. E non c'è mai stata l'opportunità o il modo di discutere di altro. Però ricordo che, appena arrivato, quando mi mostrarono dove avrei alloggiato, mi dissero: questa è una cabina armadio che funge da bunker”.

E lei come reagì?
“Io dissi: in che senso? E loro mi spiegarono che, nel caso avessi sentito il suono delle sirene, una cosa tutt’altro che strana da quelle parti, mi sarei dovuto chiudere nel mio bunker. Mi dissero: stai lì stai tranquillo ma vedrai che non succederà niente, perché con la difesa antiaerea andremo ad intercettare tutto. È solamente una questione di sicurezza preventiva. Un po' di ansia mi venne perché, ripeto, non si percepiva nulla al riguardo”.

Come ha vissuto quella giornata in cui avreste dovuto giocare poi tutto si fermò: arrivarono messaggi? Cosa vi dicevano?
“Diciamo che quello fu il mio impatto con la guerra. Le esplosioni, le sirene… fino a quando nel gruppo squadra la team manager ci scrisse messaggi avvertendoci della situazione, dei campionati sospesi e che saremmo dovuti restare chiusi in casa. Non dovevamo muoverci perché non si sapeva fino a dove i terroristi di Hamas si erano spinti. Mi feci mille domande, una in particolare: come faccio adesso a tornare a casa?”.

È vero che ha visto un massaggiatore circolare con la pistola nella cintura e un collaboratore dello staff tecnico in mimetica, col mitra in spalla?
“Una cosa del genere fa un po’ impressione. Il massaggiatore parlava italiano perché aveva studiato a Roma, mi accorsi che dietro alle sue spalle sporgeva qualcosa… gli chiesi cosa avesse. Lui alzò la maglia e mi fece vedere la pistola perché lì è quasi normale maneggiare le armi. Oltretutto c'è la leva militare obbligatoria sia per gli uomini sia per le donne. Gli uomini devono fare due anni e otto mesi mentre per le donne il periodo dovrebbe essere di due anni. E ricordo anche quando a dicembre, una volta tornato in Israele, arrivò al campo il nostro match analyst che era appena rientrato da Gaza. Indossava una divisa militare ed era armato”.

Un’esultanza del Maccabi Petah Tikva con Paramatti.
Un’esultanza del Maccabi Petah Tikva con Paramatti.

Considerato lo scenario attuale, si è mai pentito di andare a giocare in Israele?
“No, perché fare il calciatore è il mio mestiere. E se ho accettato di andare lì è solo per questioni sportive. Ho voluto fare un'esperienza personale. Tel Aviv è una delle città più belle che ho visto in tutta la mia vita. Da questo punto di vista non mi pento, anche perché ho avuto l'opportunità di giocare con e contro calciatori che magari adesso hanno giocato in nazionale contro l'Italia poco tempo fa, in uno stadio con tantissimi tifosi. Tornare lì? No, perché adesso non è sicuro”.

Come si fa a pensare di giocare a calcio quando c’è il rischio di essere chiamati a combattere da un giorno all’altro?
“L’eventualità di affrontare una guerra è qualcosa di normale per loro… mentre per noi è difficile capire questa cosa. Alcuni dei miei compagni mi dissero: guarda, se dovessero chiamarmi domani sono disposto ad andare in guerra… Tra l'altro ce n'era uno che doveva fare la leva obbligatoria, quindi ogni tanto non veniva agli allenamenti. È tutta una questione di mentalità e di contesto in cui cresci. La guerra non dovrebbe mai accadere perché porta tanti morti e fa tante vittime innocenti”.

In Italia, e non solo in Italia, c'è anche chi sostiene petizioni per escludere Israele dai Mondiali. Ci sono state manifestazioni di ampio richiamo pubblico. A breve a Udine si gioca proprio la sfida di qualificazione: è giusto scendere in campo?
“Nel calcio, come nello sport, ci sono delle regole da rispettare e delle istituzioni che prendono le decisioni. Non c’è molto altro da dire se non che un conto è la questione politica e un conto è quella sportiva. E noi calciatori dobbiamo scendere in campo. Poi chi lo dice che tutti gli israeliani vogliono la guerra?”.

Suo padre, Michele, ex calciatore di Spal, Juventus, Bologna e Reggiana, cosa le ha detto?
“Era felice che aveva fatto una bella esperienza, lui mi ha sempre lasciato libero di poter fare le esperienze che volevo. È felice che comunque sono tornato a casa senza nessun problema. Tra l'altro lui sarebbe voluto venire la settimana dopo… avevamo già preso i biglietti e tutto però purtroppo è saltato. È andata così, sono esperienze di vita che rimarranno per sempre”.

175 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views