Leandro Greco: “Ho vissuto la Roma di Totti e Cassano, ma quello davvero insopportabile era Pizarro”

Ogni bambino che sogni di diventare calciatore, si immagina con la maglia della sua squadra addosso, nello stadio nel quale la sua squadra gioca. E per chi è nato a Roma, tifoso romanista DOC, questa speranza forse va addirittura “oltre”. “Ah, ma noi in famiglia non eravamo tifosi così accaniti – prova a schermirsi Leandro Greco, ex centrocampista della Roma di Spalletti e Ranieri – ma esordire all’Olimpico è stata ovviamente una grande emozione”. Quando, però, scopriamo che allo stadio Olimpico, da tifoso “non accanito”, amava assistere alle partite dalla Curva Sud, la prospettiva cambia: “Volevo provà a damme un tono, a fare il moderato”, scherza. “In realtà sì, siamo tutti tifosi della Roma, famiglia, parenti, amici e gestire la pressione in quegli anni non è stato semplice. Per intenderci, vincere un derby era prima un sollievo e poi una gioia (sorride, n.d.r.). Per mia fortuna posso dire di averli vinti quasi tutti”. Ora Leandro, o Mister Greco, ammira le gesta giallorosse da Busto Arsizio, dove da quest’anno ha assunto la guida tecnica della Pro Patria per un “progetto stimolante” come lo ha definito lui. Farsi tutta la gavetta, come da calciatore d’altronde, per poi magari ad arrivare a (ri)coronare il suo sogno. Sai cosa sarebbe tornare all’Olimpico e magari sedersi sulla panchina giallorossa?
Tutto molto bello, e approfondiremo in seguito, ma restando all’attualità: Mister, come sta andando questa esperienza alla Pro Patria?
“In questo momento, direi particolarmente bene, visto che nell’ultimo turno abbiamo conquistato la prima vittoria in campionato (0-1 sul campo della Virtus Verona, n.d.r.). Ci eravamo andati molto vicini anche in precedenza, ma non eravamo riusciti a portare a casa i tre punti. Ci voleva una bella vittoria, serviva soprattutto ai ragazzi che si stanno impegnando tantissimo e meritavano questa soddisfazione”.
La posizione in classifica, però, è ancora piuttosto preoccupante (penultimo posto): quali sono state le difficoltà di questo inizio di stagione?
“Nulla che non fosse preventivabile, nel senso che quando sono venuto qui sapevo benissimo quale fosse la situazione. E la conosceva perfettamente la società, con la quale siamo stati in sintonia fin da subito su obiettivi e difficoltà. In Estate è stata compiuta una rivoluzione, con più di venti giocatori nuovi; dunque, inevitabilmente ci vuole un po’ di tempo. Ma il bello di questo progetto è proprio questo, il fatto di poter disegnare un foglio bianco, diciamo così. Abbiamo scelto tanti giocatori con voglia di rilanciarsi e stiamo lavorando sulla squadra sia dal punto di vista tattico che mentale per raggiungere il nostro obiettivo”.

Quali sono le squadre, e di conseguenza i colleghi, che l’hanno impressionata di più in questo inizio di stagione?
“Il Vicenza credo che sia la squadra che stia facendo meglio, come d’altronde dice la classifica (primo con sette punti di vantaggio sulla seconda, n.d.r.), ma anche il Brescia (secondo, n.d.r.), che abbiamo affrontato due giornate fa, mi ha fatto un’ottima impressione. Gli mancavano parecchi giocatori, eppure non si è notato. Questo è sintomatico del buon lavoro che sta facendo l’allenatore. E poi anche il Lecco (anch’esso secondo, n.d.r.) sta facendo bene, direi che queste sono le squadre migliori in questo momento. Complimenti, dunque, ai miei colleghi Gallo, Diana e Valente”.
Quali sono, invece, gli obiettivi della Pro Patria e quali quelli di Mister Greco?
“Sono ovviamente gli stessi: vogliamo riuscire nel nostro intento di costruire una squadra solida, con chiari principi di gioco e che riesca ad esprimersi ai livelli che ci prefiggiamo. Poi, se vogliamo sintetizzare il tutto, lavoriamo per riuscire a conquistare la salvezza. E prima ci riusciamo, meglio è, così possiamo lavorare al progetto con meno pressioni (sorride n.d.r)”.
Non era un grande dribblatore in carriera, ma ci ha provato: tornare sulla panchina della Roma cos’è, un semplice obiettivo o solo un sogno?
“Ho appena cominciato a fare l’allenatore, mi sembra prematuro fare questo tipo di discorsi. Non è per sviare la domanda, tutti conoscono il mio attaccamento alla Roma, ma direi che per il momento sono messi molto bene…”.
Ecco, appunto: lei è stato giocatore di Gasperini nella stagione 2014/2015 al Genoa: che effetto le fa vederlo sulla panchina giallorossa e si aspettava, da lui, una carriera così importante?
“Sì, me lo sarei aspettato – risponde con decisione – Perché si vedeva subito che aveva concetti di gioco all’avanguardia e una grandissima determinazione. Perché il Gasperini che vedo oggi sulla panchina della Roma è esattamente lo stesso che ho vissuto io, solo che adesso ha raggiunto quella autorevolezza per cui, quando dice o fa qualcosa di “tosto”, non viene più guardato come un marziano, come magari succedeva qualche anno fa”.

Tornando all’attualità: ha fiducia nella sua Roma quest’anno?
“Grandissima fiducia, perché in quell’ambiente serviva proprio uno come Gasperini, che non si fa condizionare da un clima molto caldo e spesso umorale e che non ha paura di entrare “a gamba tesa”, se serve. Lui va sempre dritto per la sua strada, non lo scalfisce nulla. Mi aspetto che il mister ribalti tutto e sono convinto che farà benissimo”.
Da Mister a Mister, cosa le piacerebbe avere di Gasperini?
“Il suo modo di essere diretto, con tutti, non accetta compromessi, ma è sempre estremamente coerente. Questo forse l’ha un po’ penalizzato all’inizio, ma ora che i risultati gli hanno dato ragione, la gente lo capisce di più e si è guadagnato il credito che ha sempre meritato”.
Gasp è l’allenatore che più di ogni altri ti ha fatto venir la voglia di allenare?
“Ne ho avuti tanti bravi, da Spalletti a Ranieri, passando per Gasperini, ma il tecnico che mi ha veramente cambiato da calciatore, e ha cominciato a farmi ragionare da allenatore, è Luis Enrique. È semplicemente un visionario, talmente avanti nei concetti, nel suo modo di gestire il gruppo e svolgere il suo ruolo, che a Roma purtroppo non è stato capito. Anzi, a volte è stato trattato proprio da incapace, quando invece era semplicemente avanti anni luce. Credo che sia stata un’opportunità persa per tutti. Quanto ha fatto nel proseguo della sua carriera, lo dimostra, ma già a quei tempi aveva metodologie uniche e, probabilmente, se l’avessimo trattato diversamente, avremmo assistito a qualcosa di storico”.
Hai citato anche Spalletti: ti ha sorpreso quanto successo con la Nazionale?
“Più che altro mi è dispiaciuto tanto, perché so che il mister ci ha messo tutto sé stesso. Anche se sono solo all’inizio, ho imparato che a volte nel nostro mestiere semplicemente i pianeti non si allineano. A Spalletti in Nazionale è successo proprio questo. Difficile capirne i motivi, ma questo non toglie nulla alla carriera del mister, che ha dimostrato di essere un allenatore top”.

Tornando alla tua “carriera” da tifoso: qual è il ricordo più bello?
“Sicuramente la vittoria dello Scudetto, anche se quel giorno non ero sugli spalti…”.
Ma, come, uno della Curva Sud che si perde la partita della storia della Roma?
“Ho detto che non ero sugli spalti, non che non ci fossi… (ride, n.d.r.). Ero in campo a fare il raccattapalle, proprio sotto la Sud, e ricordo l’emozione al momento dell’invasione di campo. Eravamo tutti convinti che fosse finita e stavamo già festeggiando, poi ci hanno richiamato per gli ultimi minuti ed è stato strano contenere l’emozione ancora per un po’. È stato comunque un momento indimenticabile”.
Quali altri momenti di questo tipo hai vissuto, invece, da calciatore?
“Tanti, a partire dall’esordio in Champions League a Basilea, dove per altro ho anche segnato. Quell’anno (stagione 2010/2011, n.d.r.) ero destinato ad andare ancora in prestito, ma ho fatto un ottimo pre-campionato e Ranieri un giorno mi ha preso da parte: “Non ti posso garantire nulla – mi disse – ma tu continua così e poi vediamo cosa si può fare”. Alla fine, alcune opportunità di mercato non si sono concretizzate e sono rimasto a Roma. Per un paio di mesi non ho visto il campo, poi a Basilea dovevo andare in tribuna e, all’ultimo momento, mi chiamano per andare in panchina perché non c’erano più centrocampisti. Alla fine, entro e segno, da lì è cambiato tutto…”.
Pochi giorni dopo (7 novembre 2010), hai giocato quasi tutto il derby, per altro vincendolo in “trasferta” (0-2)…
“Un’emozione forte, devo dire, perché fino a qualche giorno prima non stavo attraversando un momento particolarmente positivo e in pochissimo tempo mi è cambiata la vita. Esordio in Champions League e derby vinto, giocando più di un tempo. Al 39’ Menez si è infortunato e, vista la buona prestazione di Basilea, Ranieri mi ha dato fiducia. Io viaggiavo veramente a un metro da terra, mi riusciva tutto e infatti anche in quella partita ho fatto un’ottima figura. E, poi, abbiamo anche vinto, quindi non potevo chiedere di meglio”.

Come si fa a spiegare a chi non è di Roma, cos’è il derby?
“Semplice, non si può. A volte non si riesce a spiegare nemmeno a quelli di Roma, figurati agli altri (ride, n.d.r.). È uno stress, soprattutto per i calciatori romani, perché si è troppo coinvolti. Hai perennemente genitori, parenti, amici, tifosi che ti ricordano che si deve vincere, come se ce ne fosse bisogno. Dunque, quando finisce, è quasi una liberazione. A volte, vincerlo è prima di tutto un sollievo e solo dopo ti godi il momento (sorride, n.d.r.)”.
E pensare che, ad un certo punto, prima di vivere queste emozioni, hai rischiato anche di dover abbandonare il calcio…
“In realtà, ho rischiato proprio di abbandonare questo Mondo. Ero nella Primavera della Roma e sono stato ricoverato per un’infezione. Mi rivoltano come un calzino, poi la diagnosi: setticemia. Sono stato in ospedale per mesi, non camminavo più. In quel momento l’ho vissuta con l’incoscienza giovanile, il mio unico obiettivo era tornare a giocare, ma con il tempo ho realizzato quanto sia stato fortunato. Devo ringraziare i medici, anche quelli della Roma che non mi hanno mai abbandonato, poi la società, Conti e De Rossi senior che mi sono stati vicinissimi e mi hanno aiutato tanto a superare quel momento”.
Come ogni favola che si rispetti, poi quell’anno è arrivato lo Scudetto Primavera e l’esordio nella Roma…
“Eh sì, come hai detto tu, è sembrato veramente il lieto fine della favola. Per me, ovviamente, una gioia immensa, ma anche per i miei genitori e per tutta la mia famiglia. Dopo momenti duri, è stato come un segno divino”.
A proposito di divinità: che effetto ti ha fatto, da tifoso giallorosso, giocare con l’idolo di tutti i romanisti?
“Ovviamente è stato strano ritrovarmi con Totti nello stesso spogliatoio, ma dopo i primi momenti di inevitabile soggezione, poi Francesco si è rivelato per quello che è, una persona semplice, che ti mette a tuo agio. Nonostante sia praticamente un idolo a Roma, non è certamente uno che vive sul piedistallo. Anzi, è un ragazzo molto alla mano, simpaticissimo, davvero un uomo-spogliatoio, un leader vero”.

Nei suoi panni, da calciatore, avresti fatto tutta la carriera nella Roma o avresti provato altre esperienze? Siamo d’accordo che con qualche trofeo in più avrebbe vinto facilmente (e giustamente) il Pallone d’Oro?
“Mettersi nei panni di Francesco non è semplice. Se lo chiedi a me, sì, avrei fatto altre esperienze, magari a fine carriera, come poteva essere la MLS, anche solo per arricchirmi. Ma lo capisco, perché il suo legame con Roma e con la Roma era “di più”. È chiaro che se avesse vinto qualche trofeo in più, avrebbe anche vinto non uno, ma più di un Pallone d’Oro. Credo che, dopo l’era di Baggio, Francesco sia stato il giocatore italiano più forte in assoluto…”.
A proposito di quello spogliatoio, come è stato dividerlo con Cassano e le sue “cassanate”?
“Diciamo che non ci siamo annoiati, anche perché quelle che sono uscite sono solo una parte di quelle che in quegli anni abbiamo vissuto da dentro. Antonio è un ragazzo simpaticissimo, ma devo dire che ammiro i mister dell’epoca, perché – con sincerità e tanta umiltà – oggi, da allenatore, se capitasse a me, non so se sarei in grado di gestire certe situazioni (sorride, n.d.r). Lo spogliatoio è un ambiente molto delicato e trovare un equilibrio non è affatto facile. Quando ci riesci, devi preservarlo in ogni modo”.
Da allenatore, qual è il giocatore che, invece, vorresti sempre avere nella tua squadra?
“Daniele De Rossi, perché è un altro leader nato. Lui alzava davvero il livello. Con l’esempio quotidiano, la sua generosità, trascinava tutti e ci spingeva sempre al limite. E spesso anche oltre”.
Qual è stato, invece, il giocatore più “fastidioso” incontrato nella tua carriera?
“Anche se era un mio compagno, devo dire che Pizarro era veramente insopportabile (David Pizarro, centrocampista cileno alla Roma dal 2006 al 2012, n.d.r.). Non dal punto di vista caratteriale – intendiamoci – perché anche lui era simpaticissimo e un uomo-spogliatoio, ma perché, quando lo andavi a pressare in partitella, cercando di togliergli la palla, cominciava a sterzare una-due, dieci volte, e tu non la vedevi mai. Un giocatore di un livello eccezionale, forse anche sottovalutato per la sua qualità e quella che riusciva a dare al gioco delle squadre in cui giocava. Che giocatore El Pek…”.