Gianluca Curci: “Per il calcio ho perso soldi. Accanto a Totti tremavo, in Svezia pensavo di morire”

La bibliografia sportiva (e non solo) è piena di riferimenti alla solitudine dei numeri uno. Nel campo calcistico, quella dei portieri, appunto: “Perché il nostro – ci racconta Gianluca Curci, ex estremo difensore (tra le altre) di Roma, Bologna e Sampdoria – è semplicemente un altro sport. Io lo dico sempre che noi abbiamo ventuno avversari, quelli dell’altra squadra, ma anche i nostri compagni, perché pure loro a volte ci giocano contro (ride, n.d.r.)”. In Inghilterra raccontano la storia di Sam Bartram, portiere del Charlton. Siamo nell’inverno del 1937 e la Red Army sfida il Chelsea, ma ad un certo punto cala una nebbia fitta. Ad un certo punto, un poliziotto si avvicina a Sam: “Ma che ci fai ancora qui? La partita è stata sospesa”. Questo episodio, pur estremizzando il concetto, rende bene l’idea di quanto sia “solitaria” la vita (sportiva) del numero uno. Da qui partiamo, insieme a Gianluca, per raccontare il ruolo – sì – ma anche una grande carriera e il suo amore incondizionato per il calcio…
Mai sentita la solitudine del numero uno?
“In ogni momento. Io dico sempre che – per un portiere – son tutti avversari, anche i tuoi compagni, perché l’errore è sempre dietro l’angolo, per cui tu ti devi far trovare sempre pronto. Hai capito con che stress addosso giocano quelli come noi?”
E chi è stato particolarmente tuo nemico?
“Tutti, indistintamente. Magari ci sono momenti in cui credi di essere più tutelato e, poi, proprio lì capita l’errore e ti fai fregare. Quello che posso dirti, però, è che quando avevi davanti Samuel, Chivu, Panucci, Mexes, Juan, c’erano meno probabilità che questo succedesse”.
Allora, a parte quelli che hai citato, qual è stato il difensore da cui ti sentivi particolarmente protetto?
“Ho giocato in Under 21 con Giorgio Chiellini, che – come Samuel – era specializzato nel “fallo preventivo”. Cioè, io intanto ti do una botta così capisci che son qui, poi facciamo amicizia (ride, n.d.r.). Ricordo che in allenamento c’era Pazzini che lo pregava: “Giorgio, per favore, non mi menare, mi fai male. Ma te l’hanno spiegato che siamo compagni di squadra io e te?”. In partitella cercava sempre di stargli lontano. Una comica”.

C’è un errore di qualche compagno che, invece, ti ha davvero sorpreso e al quale non sei riuscito a rimediare?
“Non mi sarei mai aspettato che Totti sbagliasse un calcio di rigore, quello no, ma è successo pure questo. Incredibile (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi, di errori se ne commettono tanti in una partita, non mi sembra il caso di citarne uno in particolare, anche perché – appunto – ne ho commessi anche io talmente tanti, che faccio fatica a ricordarmeli”.
A proposito di Samuel, Chivu, Totti e la Roma: tutta la trafila del settore giovanile, da tifoso giallorosso e, poi, l’arrivo nello spogliatoio dei grandi. Che emozione è stata?
“Indescrivibile, da far tremare le gambe, ma davvero. Ho pensato di svenire. Guardavo il Capitano e pensavo di sognare. Mi chiedevo: “Porca miseria, ma io che ci faccio qui?”. Poi, piano piano, ci fai l’abitudine, ma all’inizio è stata davvero dura, mi sembrava di volare…”.
E come sei stato accolto? Qualche consiglio del Capitano?
“Francesco è un ragazzo molto tranquillo, quasi timido, che non parla tanto. È un leader, ma con il comportamento più che con le parole. Sono stati tutti gentilissimi con me e, te lo assicuro, non era scontato, né me lo sarei aspettato. In particolare, ricordo il primo ritiro e la prima amichevole. Prima di entrare in campo c’era inevitabilmente un po’ di tensione: Emerson se ne deve essere accorto ed è venuto verso di me: “Tranquillo – mi ha detto – sei forte, fai quello che sai e andrà tutto bene. Noi siamo qui con te”. Un altro che fin da subito mi ha sommerso di consigli è stato Samuel, tanto duro con gli avversari quanto disponibile con i compagni, soprattutto i più giovani. Quando qualche ragazzo in ritiro entrava in maniera scomposta, perché magari stanco, Walter lo difendeva e se la prendeva con i compagni più esperti se si arrabbiavano”.
L’esordio all’Olimpico credo sia un ricordo indimenticabile…
“Beh, sì, ovvio. Il mio sogno è sempre stato quello di giocare in Serie A, farlo con la maglia della Roma era un qualcosa di neanche immaginabile. Ho saputo che sarei partito titolare due ore prima della partita, quando Mister Delneri ha dato la formazione: “In porta gioca Curci”. E io: “Cosa? Non ho capito” (ride, n.d.r.). Era il 19 dicembre, abbiamo vinto 5-1 contro il Parma ed è una partita che è entrata nella storia per il record di Francesco Totti, che in quella gara ha segnato e raggiunto i 107 gol, diventando il miglior marcatore della storia della Roma. Diciamo che mi ha impreziosito l’esordio”.

In quella squadra c’era anche Cassano: qualcuna delle sue “cassanate”?
“Antonio è un ragazzo fantastico, un pezzo di pane, solo che ogni tanto gli si “tappa la vena” e non capisce più niente. Ricordo che una volta Spalletti voleva fare una seduta tattica e lui gli fa: “A’ Mister, non hai capito, qui non si fa tattica”. E Spalletti, serafico, lo ha mandato via. Che spasso”.
Hai incrociato anche un giovane De Rossi, si vedevano le stigmate del campione?
“Si vedeva che aveva qualità e carattere, quello sì, ma soprattutto era evidente la leadership. Era un giovane-vecchio già allora, per quello non mi stupisce vederlo ora allenatore. Credevo facesse un po’ più di gavetta, ma quando ti chiama la Roma non puoi dire di no. Su di lui avrei scommesso”.
Su chi, invece, non avresti scommesso come allenatore?
“Mi fa impressione vedere Chivu in panchina. Intendiamoci, già da giocatore parlava poco, e mai a sproposito, però non credevo fosse intenzionato a fare l’allenatore. È stata una sorpresa, però ora lo vedo estremamente a suo agio, sembra nato per fare questo mestiere”.
Hai avuto l’allenatore per eccellenza: Don Fabio Capello…
“Credo cha da fuori si abbia una percezione sbagliata del mister, che è visto come un “sergente di ferro”, ma in realtà non aveva bisogno di alzare la voce per gestire il gruppo. Anzi, lui aveva tre/quattro regole fisse sulle quali non transigeva, ma per il resto ti lasciava ampia libertà”.
A proposito di allenatori, nella stagione 2005/2006 sei stato titolare fino quasi al derby, poi nella stracittadina Spalletti ti ha preferito Doni: ancora arrabbiato col Mister?
“Ma va, no, assolutamente, anche perché in quella stagione credo di aver giocato di più che in tutte le altre. Eravamo in Europa League e siamo arrivati in finale di Coppa Italia. Quindi nessun rammarico”.

Nel 2011 torni a Roma e trovi Luis Enrique, che ricordo hai di lui e che effetto ti fa vederlo ora a questi livelli?
“Già allora si percepivano la sua qualità e la sua determinazione. Non guardava davvero in faccia nessuno, chi non si allenava bene, stava fuori. Era tanto intransigente e il gruppo veniva prima di tutto. Ai tempi pensavo che fosse quasi esagerato, che potesse essere un difetto, ma adesso dopo due Triplete posso dire che forse aveva ragione lui (sorride, n.d.r.). Gli ho visto preferire Okaka a Totti, oppure lasciar fuori De Rossi per un ritardo di pochi minuti alla riunione tecnica. Grande personalità. E, poi, con lui ho imparato a giocare con i piedi. Prima, mai nessuno mi aveva chiesto di farlo, era avanti anche in quello”.
Quali sono stati, invece, i derby più belli?
“Il primo, ovviamente, anche se è stato quello “della paura” del 2004/2005. Sia noi che la Lazio eravamo in zona retrocessione: è finito 0-0 e – per un portiere – va bene così (sorride, n.d.r.). Quello più bello è stato quello del 2006, quello dell’undicesima vittoria consecutiva. Vincere il derby, facendo un record, è stato qualcosa di meraviglioso”.
A proposito di Spalletti, che impressione ti fa vederlo alla Juve? Riuscirà a risollevarla?
“Beh, non proprio una bella impressione, ma questo è il calcio (sorride, n.d.r.). Credo che la Juve abbia fatto un “colpaccio”, una cosa strepitosa, e non ho dubbi che il mister riuscirà a mettere insieme il puzzle. Con i miei amici scherzavo e dicevo: “Ora lo scudetto lo vincono Milan o Juve”. Adesso i bianconeri sono lontani, ma – fidatevi – è solo questione di tempo, presto risaliranno la classifica. Io ne ho avuti tanti forti, ma mister Spalletti è il migliore nella lettura delle partite”.
E cosa ti convince del Milan?
“Innanzitutto, Allegri, che è un allenatore molto pragmatico. Sa perfettamente come sistemare le sue squadre in pochissimo tempo. Poi c’è Maignan, uno dei portieri migliori al Mondo, con uno dei preparatori più competenti che abbia mai conosciuto. Quando vedo certe parate, o come approccia i rigori, rivedo perfettamente gli insegnamenti di Mister Filippi”.

Già, Claudio Filippi, attuale allenatore dei portieri del Milan: tu l’hai avuto alla Roma, in cosa è “speciale”?
“Credo che la crescita dei portieri che ha allenato parli per lui. Per quanto mi riguarda, quello che ho apprezzato di lui, è che è in continuo aggiornamento. Ha degli insegnamenti standard che trasmette a tutti, poi innova continuamente. Quando ho visto Maignan al derby, che sul rigore si metteva da una parte, son tornato indietro di vent’anni. Poi, però, guardi attentamente la prestazione e ti accorgi di cose completamente nuove…”.
Quando ti sono tornati particolarmente utili certi suoi “trucchi”?
“Ricordo un episodio molto simile al rigore di Maignan nel derby: era uno Juve-Roma del 2012. Io ero in panchina, ma quasi alla mezzora l’arbitro espelle Stekelenburg e assegna il rigore. Io entro e respingo il tiro di Pirlo. A fine partita Mister Filippi viene da me e mi fa: “Ma come hai fatto? Pirlo non sbaglia mai…”. E io: “Mister, me l’hai insegnato tu!”. E ci siamo messi a ridere”.
Beh, parare un rigore a Pirlo è sicuramente una tacca sulla cintura…
“Sì, peccato che sulla ribattuta ha segnato lo stesso, e che la partita sia finita 4-0 per loro, però – ovvio – per me quell’episodio è un ricordo importante, un qualcosa da raccontare ai nipotini (ride, n.d.r.)”.
L’emozione più grande della tua carriera?
“Sicuramente la vittoria della Coppa Italia 2006/2007. Arrivati a Fiumicino c’erano più di diecimila persone ad aspettarci, tanto che non riuscivo a trovare il pullman. Mi ha caricato un tifoso su un “pandino”, eravamo in cinque, non so come abbia fatto, ma è riuscito a portarci fino al bus della squadra”.
Il tuo stato whatsapp dice: “Circondati di persone che fanno il tifo per te”. Nel tuo caso, chi è stato il tuo primo tifoso?
“Sicuramente mia moglie. Pensa che verso fine carriera, ho fatto due anni in Germania, al Mainz. Un freddo… Volevo smettere, non ne avevo più. Poi, però, mi arriva un’offerta dell’Hammarby, Serie B svedese. Mi dico: “Ma ‘ndo vai” (ride, n.d.r.)”. Invece mia moglie insiste: “Non puoi chiudere così”. Ha avuto ragione lei, è stata una delle migliori esperienze della mia vita”.
Come mai?
“È stata un’avventura meravigliosa, a parte il freddo: si giocava a -15°, pensavo di morire. Poi, tra viaggi andata e ritorno per Roma per tornare a trovare la famiglia, ci ho rimesso dei soldi (ride, n.d.r.). Si è creato un gruppo stupendo, abbiamo dominato e conquistato la promozione in A, generando un entusiasmo pazzesco. Praticamente allo stadio c’era tutta la città e, alla fine, è stata una grande festa. Per i giornali locali io ero il “Re”. Una bella sfida e un bellissimo ricordo”.

Attaccati i guanti al chiodo, hai iniziato una nuova carriera da allenatore dei portieri: anche questa una missione?
“Certamente non lo faccio per soldi, perché alla fine anche qui, tra benzina e impegni, finisco per rimetterci (ride, n.d.r.). Lo faccio perché il calcio è la mia vita, non riesco a farne a meno. Mi piace trasmettere ai ragazzi quello che i miei istruttori hanno insegnato a me, ovviamente mettendoci qualcosa di mio, perché non si copia nessuno”.
Cosa ti dà veramente soddisfazione in questa nuova veste?
“Vedere che i ragazzi recepiscono, che migliorano giorno dopo giorno, ti dà una carica enorme. Poi, con qualcuno di loro si crea un rapporto speciale, ci sentiamo negli anni e ci confrontiamo. Alcuni mi chiamano per chiedere di vederci per allenarci, ovviamente gratis (ride, n.d.r.). Qualche anno fa sono arrivato in una squadra e il portiere, quasi 40 anni, voleva smettere per mancanza di stimoli. Mi risulta che stia ancora giocando. Queste sono cose che ti ripagano di tutto”.
Anche di dover avere a che fare con genitori scontenti?
“Faccio finta di non aver sentito la domanda (ride, n.d.r.). No, quello no, anche perché io con i genitori non parlo. Oggi collaboro con la Vigor Perconti (una società di Roma molto quotata a livello giovanile, n.d.r.), ma ai genitori scontenti dico di andare a parlare con i dirigenti, che sono lì apposta. Io di mestiere faccio l’allenatore e non posso dare spiegazioni tecniche a chi tecnico non è. A volte sento adulti sugli spalti fare commenti assurdi, urlare offese a giocatori o allenatori e mi chiedo: “Dove siamo finiti?”. Non voglio entrare in queste dinamiche, anche perché non riuscirei a trattenermi (ride, n.d.r.)”.
E se dovessi dare un consiglio ad un giovane che vuole fare il calciatore?
“Guarda, io ho due ragazzi che giocano a calcio e non riesco a dare consigli neanche a loro. È giusto che facciano le loro esperienze. Mio figlio ha giocato nell’Accademy di Totti, adesso avrebbe potuto fare gli Allievi Nazionali, ma ha deciso di smettere. Mi dispiace, ma cosa ci puoi fare? I ragazzi devono avere il diritto di sbagliare. Solo così si cresce. Che, poi, chi decide cosa sia giusto o sbagliato? Gli adulti pensano di essere depositari della verità. E se – invece – avessero ragione loro?”.