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Cosa è stato Gigi Riva, l’uomo e il calciatore per cui si può dire “non nascerà più uno così”

Gigi Riva ha sempre usato il poco come mantra: pochi tocchi per segnare, poche parole per entrare nei cuori e poche scene per dimostrare chi fosse.
A cura di Jvan Sica
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Gigi Riva è morto e il boato, il rombo del dolore o almeno della malinconia di tanti si è sentito ovunque (tranne che in Arabia Saudita dove hanno fischiato il minuto di raccoglimento). Riva aveva 79 anni e ha lasciato il calcio a 32 per i troppi infortuni che lo hanno accompagnato durante la sua carriera. Facendo due conti spicci, è chiaro che pochi lo abbiano visto giocare e la maggioranza di chi oggi lo piange lo ha solo sentito raccontare o intravisto in qualche filmato sparso.

Eppure Gigi Riva è rimasto perché troppo grande è stato quello che ha fatto in campo e fuori. In campo bastano solo alcune evidenze per farne uno dei più grandi campioni della storia del calcio italiano. Ha ancora oggi il maggiore numero di reti segnate in azzurro, 35, realizzandole inoltre dal 1968 al 1973, quindi in soli cinque anni, ha vinto uno scudetto con il Cagliari, società che non ha mai più vinto allori, anzi si è barcamenata spesso tra A e B, ha vinto un Europeo nel 1968, segnando un meraviglioso primo gol nella seconda finale contro la Jugoslavia e un argento ai Mondiali del 1970, fermato solo dal Brasile di Pelè e gli altri quattro numeri 10.

Gigi Riva in campo è stato meraviglioso ed è arrivato in posti dove nessuno ancora oggi ha messo piede. Ma Riva resta anche per quello che ha fatto fuori dal campo, per quello che è stato come uomo, si potrebbe aggiungere anche come dirigente-poeta, mettendo insieme due universi che sembrano opposti ma in lui sono riusciti a coesistere.

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Da uomo di Leggiuno e di nebbie, ha visto il mare sardo e si è trasformato, volendo fortemente restare fra “i suoi”, quelli che però ha scelto e non ha avuto semplicemente per nascita. A un certo punto lo volevano ovviamente tutte le squadre più blasonate d’Italia e la Juve voleva fare quello che ha sempre fatto, prendere il migliore. Lui ha detto no. E spesso questo “no” lo si paragona a quanto invece i calciatori attuali fanno, correndo a braccia aperte verso club più potenti e società più ricche. Ma guardate che quella scelta era fuori da ogni normale logica calcistica e potremmo azzardare a dire capitalistica anche allora, anche al suo tempo voler restare a Cagliari è stata una presa di posizione che andava oltre il calcio e chiamava in causa appunto la poesia, come ben si accorse Pier Paolo Pasolini, il quale di Riva disse che era “il migliore poeta realista” del suo tempo.

Per la sua grandezza come dirigente, basti ricordare la passeggiata con Roberto Baggio nell’afa asfissiante sul prato del “Giants Stadium” di New York alla fine della semifinale mondiale contro la Bulgaria. Roberto aveva fatto la sua più bella partita in maglia azzurra. Ma si era fatto male ed era a rischio la partita più importante della sua vita, la finale dei Mondiali. Solo l’abbraccio, le parole e le lacrime condivise con Riva avevano potuto dare almeno un goccio di speranza a un ragazzo che aveva appena disegnato un sogno, per poi vederselo soffiare via da un vento maledetto.

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Riva è stato troppe cose, ma tutte le ha fatte con un mantra, oggi quasi incomprensibile e per questo forse così toccante anche per i più giovani. In tutto ha usato il sottrarre invece che l’accumulare. In campo toccava la palla poche volte, i tocchi servivano solo per coordinare il suo tiro spaziale, il resto era inutile accademia. Con i calciatori di tutte le generazioni ha sempre usato poche parole, perché il dire troppo non faceva ragionare il cuore. Ha sempre fatto poche scene, perché ha imparato da piccolo che si dimostra con la perseveranza, non con l’impegno a favore di telecamera o taccuino.

Questo campione del meno, dell’esserci solo per tirare una linea definitiva, oggi e per sempre resterà anche per miracoli atletici che ancora una volta fanno il solletico alla poesia. 22 novembre 1969, partita decisiva fra l’Italia e la Germania Est. Chi vince va ai Mondiali in Messico. Giochiamo bene e siamo avanti di due gol, ma serve il marchio impresso a fuoco. Cross di Domenghini in un’area completamente vuota di maglie azzurre. All’improvviso, come un angelo furente, lo schermo è spaccato da un siluro che si getta in avanti con tutta la forza che ha nelle gambe. È Riva, che fa sfarfallare tutti i tubi catodici d’Italia e segna in tuffo, un tuffo disperato e incantato.

Passa poco più di un anno, questa volta Riva è in maglia Cagliari. La squadra sta facendo uno strano pensiero, il campionato. Al “Menti” di Vicenza, Riva fa doppietta e il secondo gol è la cartolina di quella storia: per vincere con il Cagliari, Riva non ha soltanto dovuto ergersi così in alto da sfiorare il cielo, ma lo ha dovuto ribaltare, rovesciare completamente, distorcendo i punti cardinali di un calcio che molto probabilmente non sarà mai più così sconvolto.

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Aveva almeno tre soprannomi “forti”: Rombo di tuono, creato da Brera facendoci immaginare la sue veemenza improvvisa e vorace, Hombre vertical, creato da Mura che lo dipingeva così con un semplice tratto di pennello, parlando del Riva che ci è sempre stato, senza mai flettere, sempre dalla stessa parte, infine Giggiriva, scritto tutto attaccato e creato ancora una volta da Brera. Forse questo oggi è quello che più fa ricordare e sorridere.

Quando lui giocava, rombava nella bocca dei fortunati che lo hanno visto un rombo, un miscuglio tonante di lettere che per fortuna non lascerà mai le nostre orecchie. Giggiriva è per noi italiani il calciatore perfetto, l’uomo capace di esserci sempre, il dirigente che trovava nel silenzio il traguardo. Le frasi fatte sono odiose e stantìe già mentre si leggono, ma questa volta chi può negare la verità nelle parole: “Uno così non nascerà più”?

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