Come il Manchester City è finito nell’ombra del genocidio in Sudan: il silenzio del pallone

Mentre la Premier League celebra una delle sue epoche più scintillanti, il Sudan vive una tragedia che pochi vogliono guardare. Dal 2023, il paese è devastato da una guerra tra l’esercito regolare (SAF) e la milizia Rapid Support Forces (RSF), nata dai resti delle Janjaweed, protagoniste delle atrocità in Darfur vent’anni fa.
Secondo Amnesty International e Human Rights Watch, la RSF ha compiuto esecuzioni di massa, stupri sistematici e attacchi contro comunità etniche come i Masalit. Le Nazioni Unite parlano apertamente di crimini di guerra e di un “genocidio in corso” nella regione del Darfur. A El Fasher, capitale del Nord Darfur, interi quartieri sono stati distrutti, mentre le testimonianze di civili descrivono violenze su larga scala.
Le accuse contro gli Emirati Arabi Uniti
In un’inchiesta pubblicata dal giornale inglese The Guardian nel novembre 2025 e in un rapporto di Amnesty International dello stesso anno, gli Emirati Arabi Uniti vengono accusati di aver fornito, direttamente o indirettamente, armi e supporto logistico alla RSF, violando l’embargo ONU sulle forniture militari al Sudan.
Amnesty ha identificato sul campo componenti di droni e munizioni di fabbricazione cinese transitati attraverso gli Emirati. Anche la Brookings Institution e PBS NewsHour hanno riferito che gli EAU sono ritenuti da osservatori e governi una “potenza di influenza” nel conflitto, con collegamenti alle rotte commerciali che rifornirebbero la milizia.

Abu Dhabi, però, nega ogni coinvolgimento militare: dichiara di sostenere soltanto missioni umanitarie in Africa. Nel maggio 2025, il Sudan ha portato il caso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, accusando gli Emirati di “complicità nel genocidio”. La Corte ha respinto il ricorso per questioni di giurisdizione, senza esprimersi sul merito, ma il deposito di prove rimane parte del fascicolo internazionale.
Sheikh Mansour, potere e immagine
Sheikh Mansour bin Zayed Al Nahyan è una delle figure più potenti del Golfo. Vicepresidente degli Emirati, membro della famiglia reale di Abu Dhabi e, soprattutto, proprietario del Manchester City dal 2008 tramite la Abu Dhabi United Group. Sotto la sua guida, il club è diventato un colosso globale: titoli, sponsor internazionali, un impero calcistico esteso in cinque continenti con la City Football Group.
Ma lo stesso modello che ha portato il City ai vertici del calcio mondiale è visto da molti come un esempio di soft power: una strategia per proiettare un’immagine moderna e progressista di Abu Dhabi, distogliendo l’attenzione dalle sue politiche autoritarie e dai conflitti in cui il Paese è coinvolto.

Come scrive The Guardian nel pezzo ‘Silence over Sudan: why do Manchester City’s owners get away with so much?', il successo sportivo rischia di diventare “uno scudo morale dietro cui nascondere la realtà del potere”.
Sportwashing: la nuova geopolitica del calcio
Il termine “sportwashing” — l’uso dello sport per migliorare la reputazione di governi o imprese accusati di violazioni dei diritti umani — non è nuovo. Ma il caso del Manchester City rappresenta, per molti analisti, il suo esempio più compiuto: il club non è solo una squadra, ma il volto internazionale di uno Stato.
Secondo l’organizzazione Darfur Union UK, che riunisce la diaspora sudanese in Gran Bretagna, “il successo del City è costruito sull’occultamento di verità scomode”. Il gruppo chiede alla Premier League di introdurre criteri etici nei processi di fit and proper ownership per evitare che governi coinvolti in conflitti o violazioni dei diritti umani possano possedere club inglesi.

Il silenzio del calcio
Nonostante le inchieste e le campagne, il mondo del calcio continua a restare in silenzio. La Premier League non commenta questioni politiche; la UEFA evita dichiarazioni su proprietà statali. Gli sponsor, per ora, non mostrano alcuna intenzione di prendere posizione.
Solo alcuni gruppi di tifosi — come City Fans for Justice — e attivisti britannici hanno chiesto maggiore trasparenza sui fondi provenienti dagli Emirati. “La Premier League — scrive il Guardian — ha creato un ecosistema dove il denaro vale più della coerenza morale”. E mentre il Manchester City continua a sollevare trofei, il Darfur continua a bruciare nel silenzio generale.

Oltre lo sport: una questione morale
Le accuse contro gli Emirati Arabi Uniti non si traducono, al momento, in responsabilità penale personale per Sheikh Mansour. Nessun tribunale lo ha mai accusato o condannato. Ma il punto, sottolineano molti osservatori, non è la colpa individuale: è la responsabilità collettiva di un sistema che intreccia affari, politica e sport globale.
Il calcio, che muove miliardi e influenza culture, può davvero considerarsi “apolitico”? L’etica sportiva, spiegano analisti della Brookings Institution, non può ignorare i legami tra proprietà statali, conflitti armati e violazioni dei diritti umani.
La partita che nessuno vuole giocare
Il genocidio in Sudan non è un tema da prime pagine nel mondo del calcio. Ma la crescente evidenza del coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti, e il ruolo di figure di spicco come Sheikh Mansour, impongono una riflessione più ampia.
Il calcio moderno non può continuare a dividersi tra trionfi sportivi e tragedie ignorate. Dietro le luci dell’Etihad Stadium, il successo del Manchester City racconta una storia più complessa: quella di uno sport diventato parte della diplomazia globale, e di un mondo che, di fronte alla sofferenza, preferisce voltarsi dall’altra parte.