Bruno Cirillo: “Vidi la testata di Zidane a Materazzi e pensai: allora non sono io. Ma si è scusato”

Se non fosse stato un difensore, Bruno Cirillo, classe 1977, una carriera spesa tra i campi di provincia con picchi di campione d’Europa Under 21 e una stagione all’Inter di Ronaldo (“quello vero”), sarebbe il protagonista perfetto di “Una vita da mediano” di Ligabue. Tanto sacrificio a disposizione della squadra, tanta abnegazione e volontà laddove non arrivava la tecnica, ma un sogno coronato grazie alla caparbietà. Una carriera vissuta alla grande, forse anche precursore in alcuni casi: uno dei primi italiani a consacrarsi all’estero, il primo caso “VAR” in diretta e tante altre curiosità in questa intervista a Fanpage.it in cui Bruno si è aperto senza reticenze. Una disponibilità rara in questo mondo. E proprio lui, che il sogno lo ha coronato dopo tanti sacrifici, oggi prova a spiegare ai suoi “ragazzi” (così li chiama) che la strada per il successo è sconnessa, irta e tortuosa. E – in particolare – cosa ci voglia per arrivare all’obiettivo: il Cuore (con la C appositamente maiuscola).
Nato a Castellammare, cresciuto a Torre Annunziata, come ci sei finito a Reggio?
“Nel modo più classico possibile, con la società locale per la quale giocavo da ragazzo, la Torre Annunziata 88, abbiamo fatto diversi provini e la Reggina ha deciso di puntare su di me, così a 14 anni mi sono trasferito in Calabria. Devo dirti che all’inizio è stata dura, perché mi mancavano i miei amici, la mia famiglia. Ero nel pieno dell’adolescenza e dovevo rinunciare a tutte quelle attività tipiche di quelle età. Ci si allenava, si studiava di sera e non c’era spazio per nient’altro. Ovviamente, però, lo facevo con grande convinzione e determinazione per riuscire a raggiungere il mio obiettivo”.
Obiettivo raggiunto il 29 agosto 1999: esordio in Serie A addirittura contro la Juventus a Torino, gara per altro finita 1-1…
“Eh già. E pensa che io quella partita non dovevo nemmeno giocarla. Invece, è stata la svolta della mia carriera. Avevo fatto tutto il ritiro, ma verso la fine del mercato erano arrivati altri tre difensori, Stovini, Oshadogan e Mercier. Il direttore mi aveva fatto capire che per me sarebbe stato meglio andare in prestito, ma nella settimana precedente la partita era arrivato il comunicato della Lega e sia Mercier che Oshadogan risultavano squalificati. Per cui per la gara contro la Juve eravamo rimasti in tre difensori – io, Stovini e Giacchetta – e Colomba giocava a tre dietro… Alla fine il mister decide di schierarmi, io gioco alla grande, una partita da almeno da 7 in pagella, e da quel momento non esco più. Chissà cosa sarebbe successo se non fosse arrivato quel comunicato…”.
Per altro, un esordio davvero da sogno, contro Zidane, Inzaghi, De Piero, Nedved…
“Era una Juve eccezionale quella, con fuoriclasse in ogni ruolo. Dietro c’era gente come Montero, Ferrara, Pessotto, difensori come oggi non ne nascono più! Erano tutti forti, ma sinceramente si vedeva subito che Zidane era di categoria superiore. La palla la accarezzava, una classe immensa”.
Alla tua prima stagione in A, anche un gol all’Olimpico contro la Roma con 50 metri di contropiede in solitaria con tanto di esultanza sotto la Sud…
“Non è andata proprio così. La verità è che era a fine partita: eravamo riusciti a segnare e stavamo difendendo il risultato. Nel finale la Roma era completamente sbilanciata per recuperare e, così, mi capita questo contropiede, faccio tutto il campo da solo e segno. Dopo, ero talmente stanco che sono crollato sotto la Sud, ma perché non riuscivo a fare nient’altro (ride n.d.r). A proposito di campioni, quella era la Roma di Totti, Montella, Delvecchio. Credo di aver vissuto un calcio che non esiste più e che difficilmente esisterà ancora in futuro. Ogni giornata di campionato incontravi avversari di livello eccezionale, oggi – con tutto il rispetto – la qualità è decisamente inferiore”.
Quell’anno fai talmente bene, che poi nel mercato successivo ti acquista l’Inter. Quella di Zanetti, Ronaldo, Vieri, Seedorf e molti altri. La stagione non andò bene, ma credo che per te sia stata un’esperienza incredibile…
“Eh sì, io avevo poco più di vent’anni e per me era la prima volta in una grande squadra. Avevo fatto esperienza Serie B e C e una sola stagione in A, puoi immaginare. Mi sentivo catapultato in un altro mondo. Ronaldo lo ammiravo in TV e invece da un momento all’altro mi sono ritrovato a condividere lo stesso spogliatoio. Eppure, erano tutti giocatori di un’umiltà incredibile, che cercavano in ogni modo di aiutarti, ragazzi semplici e disponibili”.

Nesta, Cannavaro, tutti i più grandi difensori di quell’epoca hanno sempre detto che, come Ronaldo il Fenomeno, non ne hanno mai visti: sei d’accordo?
“D’accordissimo. Pensa che quell’anno lui era infortunato ed è rientrato praticamente negli ultimi mesi. Appena rientrato, però, gli ho visto fare cose che fino a quel momento, e anche dopo, non ho più visto fare a nessuno. Un giocatore allucinante, di un altro livello, abbinava tecnica ad una velocità impressionante. Però, di Ronnie voglio ricordare davvero l’umiltà. Ricordo che io ero un ragazzo timido, che – appunto – viveva il sogno di giocare tutti i giorni con Ronaldo, così un giorno mi sono fatto coraggio e gli ho chiesto di fare una fotografia insieme, per tenerla come ricordo. E lui mi ha chiesto: “Ma perché vuoi fare una foto con me”. Mi guardava stranito, davvero non capiva perché volessi avere una foto ricordo con lui. Ricordo ancora la sua faccia (sorride, n.d.r)”.
Fu un anno orribile per l’Inter, ma in particolare per Lippi, che fu esonerato subito dopo le clamorose dichiarazioni “Fossi nel presidente, attaccherei i giocatori al muro e li prenderei a calci nel culo”. Poi vinse il Mondiale nel 2006. Che ricordi hai di lui quell’anno e cosa hai pensato quando lo hai visto sollevare la coppa?
“Sono stato felicissimo per lui, oltre che per tutti noi ovviamente. Ho pensato che se lo meritasse, perché alla fine, anche se quell’anno non andò bene, sulle qualità dell’allenatore era impossibile discutere. Io, poi, ho sempre avuto un ottimo rapporto con lui. È stato lui a portarmi all’Inter e a darmi l’opportunità della vita, poi le cose non sono andate come ci si aspettava, ma questa è l’imponderabilità del calcio. Ricordo che fin dal primo giorno ha cercato di mettermi a mio agio. Io andavo a mille, volevo dimostrare di meritarmi quella opportunità e per questo negli allenamenti non risparmiavo entrate anche un po’ sopra le righe. Un giorno mi si avvicina e mi fa: “Bruno, non mi devi dimostrare niente. Sono anni che ti seguo, sono io che ti ho voluto qui, stai tranquillo che sei come tutti gli altri”. Detto da un allenatore di quel calibro è stato un attestato di stima incredibile per me. Mi vengono ancora i brividi a ripensarci”.
Abbiamo parlato di Ronaldo il Fenomeno, ma in quegli anni c’erano attaccanti eccezionali in Serie A. Ronnie a parte, ovviamente, quello che hai sofferto di più?
“Ce n’erano tantissimi, è davvero difficile sceglierne uno. Devo dire, però, che ogni partita giocata contro Ibrahimovic era una “guerra”. Ogni contrasto era un colpo e una parola, poi però quando finiva la partita, amici come prima. Fantastico. Devo dire che se in quegli anni ci fosse stato il VAR, non so quante partite sarebbero finite regolarmente (ride n.d.r), però c’era anche tanto rispetto per i campioni. Ci approcciavamo al calcio con grandissima umiltà e al calcio davamo tutto. Adesso non è più così…”.
A proposito di VAR, tu hai vissuto un episodio che si può definire il “battesimo” non ufficiale del VAR. Scazzottata nel sottopassaggio con Materazzi e tu che – sanguinante – vai a denunciare l’episodio in diretta TV…
“E’ quello che dicevo prima sul clima che si respirava a quei tempi (sorride, n.d.r). Quello fu un episodio grave, sono finito in ospedale e porto ancora i segni sul labbro. Stavo giocando col Siena a San siro contro l’Inter e io facevo il terzino destro. Me la dovevo vedere con Kily Gonzalez ed era un duello piuttosto tosto. Materazzi non era convocato ma era comunque a bordo campo e ha cominciato a dare consigli al compagno, ma in modo provocatorio. Sono volate alcune parole. A fine partita ci siamo incrociati nel tunnel e lui, dal niente, mi ha tirato un pugno che mi ha aperto il labbro. Poi, però, qualche giorno dopo, ci siamo rivisti per un incontro organizzato appositamente dalla Gazzetta dello Sport e lui si è scusato. Ho visto un Materazzi sinceramente dispiaciuto, per cui per me era finita lì. Successivamente, ci siamo incontrati in altre occasioni, anche in India da avversari quando siamo andati a giocare lì e i rapporti sono sempre stati professionali e sereni”.
Cosa hai pensato, però, nel 2006 al momento della testata di Zidane?
“Eh, la cosa era ancora fresca, per cui ci ho ripensato e mi son detto: “Allora non sono solo io” (ride, n.d.r.).
Un’altra curiosità: tu hai giocato con Enrico Chiesa a Siena. Che effetto ti fa vedere Federico in campo?
“Un grandissimo effetto, perché me lo ricorda tantissimo, ha gli stessi movimenti in campo, è incredibile la somiglianza. E, poi, io me lo ricordo un frugoletto sul campo. Enrico abitava a Firenze e quindi lo portava spesso agli allenamenti. Alla fine, lui si fermava e giocavamo sul campo, sono ricordi molto belli. Vederlo a questi livelli oggi mi fa molto piacere, ma anche una strana sensazione (sorride n.d.r)”.
Nella seconda parte della tua carriera hai fatto un po’ il giramondo: Grecia (AEK e Paok), Spagna (Levante), hai tenuto a battesimo pure il calcio professionistico in India. Qual è l’esperienza che ti è rimasta più nel cuore?
“Sicuramente la Grecia, sia per una questione personale che dal punto di vista professionale. In Grecia ho trovato moglie, anche se ormai ex, ed è nata mia figlia. Per cui almeno una volta al mese torno lì e ogni volta i tifosi mi riconoscono. È gratificante sapere di aver lasciato un buon ricordo, evidentemente si sono resi conto di avere a che fare con una persona vera, che ha dato tutto. E, poi, con AEK e Paok ho giocato in Champions League ed Europa League, opportunità che per un calciatore sono il massimo, difficili da dimenticare. L’esperienza dell’India, invece, è stata bella, ma anche struggente. Il calcio era uno show, prima e dopo la partita era uno spettacolo, con tanto di fuochi d’artificio. Si giocava sempre davanti a 80mila persone. C’erano giocatori come Materazzi, Del Piero, Trezeguet e tanti altri e – anche se il livello generale non era eccelso – sentivi comunque di contribuire a qualcosa di importante per il Paese. Fuori, però, c’era una povertà incredibile, faccio fatica a dimenticare quello che ho visto. Ripensandoci, ogni volta mi si stringe il cuore”.
Tornando agli inizi della tua carriera: da giovanissimo, con la maglia della Nazionale, ti sei tolto una grande soddisfazione…
“Eh sì, avevo 22 anni e ho vinto l’Europeo Under 21 da titolare, in una squadra piena di campioni e ragazzi eccezionali. C’erano Pirlo, Gattuso, Abbiati e tanti altri. È stata un’esperienza indimenticabile, anche grazie a Mister Tardelli, praticamente un papà per tutti noi. Mi sono sempre chiesto perché non abbia più allenato ad alti livelli. Io l’ho avuto anche all’Inter dopo l’esonero di Lippi e anche lì aveva comunque tenuto botta. Il calcio è strano…”.
C’è qualcuno dei tuoi compagni dell’epoca che ricordi in modo particolare?
“Dal punto di vista tecnico e professionale, ricordo l’eleganza di Pirlo. Giocava sotto età in U21, ma aveva già una personalità incredibile. Dentro il campo era una radio, parlava in continuazione (ride, n.d.r). Dava indicazioni a tutti, chiedeva palla, era sempre nel vivo del gioco. Un giocatore meraviglioso già a quell’età. Fuori dal campo, il ragazzo più tranquillo che abbia mai conosciuto. Dal punto di vista personale, invece, per me Rino Gattuso è stato come un fratello, lo amo. Un ragazzo di una bontà unica. Ci sentiamo ancora spesso, sono andato a trovarlo a Marsiglia quando allenava là. Se dovessi andare in guerra, mi porterei sempre uno come Rino, perché non conosco persona più leale disposto a buttarsi nel fuoco per aiutare i compagni. Ricordo ancora i discorsi che faceva prima delle partite importanti per motivarci: entravi in campo che avresti voluto spaccare il mondo”.

Oggi il tuo mestiere è proprio quello di trovare giovani che possano poi vivere quelle emozioni. Come ti trovi in questo nuovo ruolo?
“Sono un po’ scout, un po’ “consigliere”, diciamo così. Mi piace molto perché mi permette di stare a contatto con il calcio, che è la mia vita. E poi mi dà grande soddisfazione quando vedo i miei ragazzi crescere. Contribuire a coronare i loro sogni è molto gratificante. Il mio ruolo non è solo quello di trovare giocatori con potenzialità, ma anche contribuire a svilupparle. Studio molto i video, li rivedo con loro, gli do consigli sui movimenti, sugli atteggiamenti e, poi, è bello vedere che in campo li ripetono”.
Un ragazzo che di recente ha coronato il suo sogno anche grazie ai tuoi consigli?
“Sono molto orgoglioso di quanto ha fatto Panos Katseris. È un classe 2001, terzino destro, è partito dal basso, ha lavorato duramente, è arrivato a giocarsi le sue chance al Catanzaro e ora gioca in Ligue 1 al Lorient. Gli auguro un grande futuro, ma lui è l’esempio che con la perseveranza si può andare lontano”.
Molti sostengono che i giovani di oggi non abbiano voglia di fare grandi sacrifici, tu che ci lavori ogni giorno che ne pensi?
“Ovviamente non bisogna generalizzare, però è vero che questi ragazzi sono molto più fortunati di noi, questo non lo si può negare. Una volta arrivavi a guadagnare bene se eri davvero forte, oggi la media degli stipendi è generalmente alta. E quando tutto è più semplice viene inevitabilmente meno l’esigenza di sacrificarsi. E, poi, è diversa proprio la società: io quando ero ragazzino uscivo da scuola, andavo al campetto sotto casa e rientravo col buio. Oggi, se vai in giro, non vedi più i bambini giocare per strada…”.
Chiudiamo con una curiosità: viste le tue origini, immagino tu sia tifoso del Napoli. Non so se si possa dire…
“Certo che si può dire, sono tifosissimo nel Napoli e ne sono pure orgoglioso”. (ride n.d.r.)
Come l’hai vissuto questo Scudetto?
“In diretta”.
In che senso?
“L’ho seguito passo dopo passo, con grande trepidazione come tutti qui, da tifoso ma anche da “dentro”, diciamo così. Sono fiero di avere un piccolo rapporto con Mister Conte, nato prima da avversari sempre leali in campo e, poi, grazie al fatto di avere lo stesso procuratore per un periodo (Federico Pastorello, n.d.r.). Quindi ci siamo incontrati a qualche evento e da lì nel tempo ci siamo sentiti. Quest’anno mi è capitato di mandargli qualche messaggio nel corso della stagione e lui mi ha sempre risposto in maniera “determinata”. Sapeva che sarebbe stata dura, ma ho sempre percepito che lui credesse veramente nell’impresa. D’altronde, è unico in questo: tutti vogliono ottenere risultati, ma solo lui entra in uno spogliatoio nuovo inculcando il “tarlo” di vincere subito. È un fenomeno in questo. E, ora, sono convinto che con lui si possa aprire un ciclo”.
Anche perché la “tua” Inter pagherà lo scotto del nuovo progetto. Te l’aspettavi quanto è successo e l’addio di Simone Inzaghi?
“Non mi aspettavo quello che è successo a Monaco, devo essere sincero. Non capisco come sia potuto accadere, perché solo chi è dentro sa di certe dinamiche, ma dopo un tracollo del genere, credo fosse inevitabile fare alcuni ragionamenti e prendere alcune decisioni, anche importanti, perché la botta è stata troppo grande. Quindi il fatto che si sia deciso di cambiare, chiunque abbia preso la decisione, quello non mi ha sorpreso. Ora, però, ci sarà bisogno di tempo per tornare a certi livelli…”.