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Alessandro Diamanti: “Per la Nazionale ho vomitato, in Cina vidi spuntare 50 grattacieli dal nulla”

Alessandro Diamanti racconta a Fanpage.it il lungo viaggio della sua carriera da calciatore, tra aneddoti e retroscena: dai campi della Serie A all’Australia, passando per la Nazionale, la Premier League e la Cina.
A cura di Redazione Sport
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A cura di Ilaria Mondillo e Alessio Morra

Alessandro Diamanti, detto Alino, è stato un calciatore molto amato. Non è mai stato in un top club, ma ha lasciato il segno nel mondo del calcio. Magie, giocate spaziali, spesso istintive che lo hanno portato nel cuore dei tifosi. Ora Diamanti fa l'allenatore e nell'intervista rilasciata a Fanpage.it, realizzata mentre era davanti al campetto dov'è cresciuto, sotto casa, ha parlato della sua idea di calcio e della sua vita da calciatore sempre, perennemente, in giro per il mondo. Dall'Italia all'Inghilterra, dalla Cina all'Australia, che rappresenta il suo presente insieme a Coverciano dove sta effettuando il corso Uefa per futuri allenatori.

Una figura importante della tua vita è stato tuo nonno, l'uomo che ti ha instradato al calcio.
Mio nonno ha vissuto circa quarant’anni portando via i ragazzi dalla strada e li ha fatti giocare a calcio, pensando che il calcio fosse la medicina per tutto, in fondo le regole del calcio sono le regole della vita, sono esattamente le stesse, io sono cresciuto con questi valori, giocando a calcio, comportandomi seguendo i valori del calcio. Ho avuto un’infanzia felicissima, sono cresciuto in un campo di calcio a cinquanta metri dal campo c’è casa mia. Tornavo dalla scuola, buttavo lo zaino in giardino e stavo in campo con i ragazzi più grandi.

Riavvolgiamo il nastro e torniamo indietro all'inizio della tua carriera.
Ho debuttato con il Prato, giocai una decina di minuti, non fu un vero debutto. Però tengo bene a mente l'esordio con la '10' in un Cesena-Prato, vincemmo 4-0 e lì non era semplice vincere. Quando feci l'esordio allo stadio di Prato segnai e fu bellissimo. Io sono cresciuto in curva, alla ‘Casa del Popolo' dei tifosi pratesi, c'erano tutti i miei amici.

La tua prima parte di carriera non è stata proprio lineare, cambiò tutto quando trovasti Bisoli.
Dopo il Prato andai a Fucecchio, andai a fare esperienza, a prendere calci e sputi, poi Empoli, un altro ritorno al Prato e l’Albinoleffe, giocai poco perché non ero un professionista modello, andavo troppo in giro. Tornai a Prato, trovai Mister Bisoli, ci salvammo all’ultima giornata con un mio gol e da quel momento decisi ci provarci, lui mi mise in riga dandomi delle regole per diventare calciatore. Ci fu un click mentale, l’anno dopo segnai 12 gol e passai al Livorno.

Al Livorno hai vissuto un'esperienza indimenticabile. Diventasti l'idolo della tifoseria e vinceste un campionato di B.
Lì ci andai grazie a un mio grande amico, Fabio Galante, senza l'aiuto di procuratori o direttori. In Toscana mi conoscevano tutti. Dicevano: ‘è forte, ma'. Galante con Spinelli mi portò a Livorno e capì subito che dovevo cambiare registro. Ho pensato solo al presente, al calcio, e sono partito.

Idolo totale a Livorno, dove ha vinto un Campionato di Serie B e siglato 34 gol in tre stagioni
Idolo totale a Livorno, dove ha vinto un Campionato di Serie B e siglato 34 gol in tre stagioni

Tu, Protti e Lucarelli siete i simboli del Livorno, con gli amaranto hai disputato anche una delle stagioni migliori della tua carriera, una delle ultime.
Protti e Lucarelli sono delle statue a Livorno. Pensa se avessimo giocato 4-3-1-2, con me dietro loro due. A Livorno sono stato bene perché caratterialmente siamo simili: siamo passionali, ‘scazzati', siamo persone serie, ma non seriose. Io ho sempre avuto un pizzico di follia, gli australiani la chiamano crazyness (in italiano follia). Se esco da questi binari perdo tutto me stesso. Comunque l'ultimo anno eravamo in Serie B, riuscimmo a salvarci, anche grazie a tanti gol miei. Diverse squadre di Serie A pensarono a me, ma dall'Australia un amico mi chiamò e dopo tre giorni ero a Melbourne.

Dopo l'ultima esperienza al Livorno sei andato in Australia, ma dopo la prima sei finito in Inghilterra, come è andata con il West Ham?
Quando andai in Inghilterra ero un ragazzino, non ero mai uscito dall’Italia, un ragazzino messo a Londra. Ho faticato i primi due o tre mesi, poi quando mi sono ambientato nello spogliatoio ho fatto meglio anche in campo. Facevo molta fatica con la lingua, non sapevo niente con l’inglese. Agli inglesi non gli fa piacere se non lo parli, a differenza dell’australiano. Pensate che alla fine della prima intervista che ho fatto in Australia il giornalista mi disse di non imparare l’inglese perché a lui piaceva l’inglese – italiano, che lo fa impazzire.

Diamanti ha giocato tra il 2009 e il 2010 ha giocato con il West Ham, ha segnato 7 gol in Premier League.
Diamanti ha giocato tra il 2009 e il 2010 ha giocato con il West Ham, ha segnato 7 gol in Premier League.

Tra Londra e l'Australia c'è stata la Cina, hai vissuto una stagione con il Guangzhou dopo un traumatico addio con il Bologna.
Il Bologna non stava bene economicamente e io partì. Dovevo salvare il Bologna per andare dall’altra parte del mondo con i figlioli piccoli, mi trattarono come un manichino per una decina di giorni. Andare in Cina fu una scelta sofferta, perché avevo un grande amore per Bologna: io amavo loro, loro amavano me. Fu come quando due innamorati si lasciano. Non fu un periodo bellissimo quando arrivai in Cina, ricevetti tante cattiverie da Bologna.

Con il Guangzhou riuscisti comunque a vincere un campionato e hai girato l'Asia grazie alla Champions League.
In Cina c’era un calcio più fisico, più atletico. Per me è stata un’esperienza bellissima, è durata un anno, perché avevo ancora il fuoco dentro, volevo tornare in Europa. Ho vinto il campionato, ma quel calcio non mi dava l’emozione, l’adrenalina del nostro calcio. Avevo trent’anni, avevo perso il Mondiale, ma è stata un’esperienza fantastica. Ho girato tutta la Cina, sono stato in Giappone, Corea, in Australia giocando la Champions asiatica. L’Oriente dà delle emozione che l’occidente non dà, a livello di esperienza.

Diamanti ha giocato poco più di un anno in Cina con il Guangzhou, vinse anche il campionato cinese.
Diamanti ha giocato poco più di un anno in Cina con il Guangzhou, vinse anche il campionato cinese.

Com'era la vita in Cina? Quali sono le cose che ricordi maggiormente?
Ricordo tante cose. In primis la loro cultura. Sono molto meccanici, se a loro dicevano fai questa cosa cento volte loro la facevano. Se invece cinquanta così e cinquanta come vuoi andavano in difficoltà. Compagni semplici, molto alla mano. Ricordo bene il caldo che faceva a Guangzhou, 40 gradi, molto umido, otto mesi di caldo. Infatti la prima cosa che feci e che mi rasai con i capelli che mi cascavano.

Facile immaginare viaggi lunghissimi e anche tanto traffico, e poi?
Di viaggi me ne sono fatti tanti, un centinaio di voli in dieci mesi, ero più in cielo che in campo a giocare. Fu un anno duro fisicamente e molto difficile da calciatore. A livello di vita, famiglia, bene, scuola americana per i ragazzi. Mia moglie è di Taiwan parla cinese, i miei figli parlano cinese, io avevo il traduttore. Però facevo 12 chilometri per andare da casa al campo d’allenamento. Pensate che ci mettevo un’ora e venti ad andare e un’ora e venti a tornare. Una trasferta normale durava un giorno. Gli aeroporti sono sempre fuori dalla città.

Tu vivevi in città?
Noi stavamo in un compound tutto nuovo. Quando arrivai era febbraio, dopo un anno c’erano cinquanta grattacieli in più, venti strade in più, un’altra roba. Io vivevo a dodici chilometri da Guangzhou, quando arrivai sembrava campagna dopo un anno era diventata una metropoli. Sono tornato dopo qualche anno era diventata ancora più bella, bella è anche la gente.

Hai segnato tanti gol splendidi su punizione, qual era il tuo segreto?
Il mio segreto sulle punizioni non dovrei dirlo. No, scherzo. Io fino ai 13-14 non ho mai provato una punizione, poi abbiamo iniziato a tirare sul campetto. Anche quando sono finito in Serie A le punizioni non le provavo. Non lo facevo perché se ne mettevo tre o quattro all'incrocio dei pali al venerdì e poi la sbagliavo di domenica impazzivo. Solo quando mi provocavano le calciavo, diciamo quando magari c'erano in ballo una cena o 50 euro.

’Alino’ Diamanti è diventato poi un idolo a Bologna. 22 gol in 88 partite con i rossoblu.
’Alino’ Diamanti è diventato poi un idolo a Bologna. 22 gol in 88 partite con i rossoblu.

Ti è capitato quindi di sfidare qualcuno sulle punizioni in allenamento?
Ricordo che a Bologna quando arrivò Gabbiadini, che era un ragazzino bravo ed era già transitato in Nazionale, si calciava da fuori. Gli dicevo se scommettiamo una Coca Cola tu non vinci mai. Lo facevo andare avanti, ma quando poi scommettevamo una cena o 50 euro vincevo io.

Hai qualche rimpianto nella tua carriera?
Non ho rimpianti. Ma se devo trovare l'ago nel pagliaio l’unico piccolo rammarico è essere venuto via dal West Ham troppo presto. Avevo vissuto un anno fantastico, ero nel cuore dei tifosi e forse dovevo continuare il mio percorso lì. Ma la cosa più difficile della vita è fare delle scelte. Facile vivere e giocare con la testa di dieci anni dopo.

Hai giocato anche con la Nazionale e hai vissuto una grande avventura agli Europei del 2012 quando con l'Italia arrivaste in finale, che ricordi hai?
Era una bella squadra. Tutti mi chiedono di Balotelli e Cassano, che avevano una forte personalità ed erano anche forti. Ma noi eravamo un bel gruppo con Prandelli che faceva l’allenatore e le sue scelte, c’era grande rispetto nel gruppo, tutti volevamo fare bene nella Nazionale. Ottenemmo due grandi vittorie in quell’Europeo e una grande sconfitta, ma quella Spagna era imbattibile. Contro tutti i pronostici arrivammo in finale perché eravamo dati per spacciati. Non volevano farci partire nemmeno per una cosa del calcio-scommesse, andammo via da Pisa con gli striscioni. Facemmo un bell’Europeo, che legò molto l’Italia, eravamo un gruppo ganzo.

Diamanti ha preso parte a Euro 2012. L’Italia arrivò in finale, lui segnò uno dei rigori all’Inghilterra.
Diamanti ha preso parte a Euro 2012. L’Italia arrivò in finale, lui segnò uno dei rigori all’Inghilterra.

Ora tu fai l'allenatore c'è qualche allenatore al quale ti ispiri?
Non mi rispecchio in nessuno, ho preso sia le cose positive che le negative da quelli che ho avuto. Sono sempre stato un capitano della squadra, che è un po' come fare l’allenatore. Di capitani ce ne sono cinque o sei tipi: c’è il capitano del presidente, quello della società, quello dei tifosi, quello dei giornalisti, quello dell’allenatore e della squadra. Io sono sempre stato il capitano della squadra, questo mi ha portato qualche volta a situazioni più difficili di quelle in cui volevo essere. Fare il capitano della squadra non è come fare l’allenatore, però è molto simile. Di allenatori ne ho avuti tanti bravi, tanti scarsi.

Che tipo di allenatore sei?
Da allenatore voglio divertirmi e voglio provare ad arrivare, sono ambizioso, ma non ho fretta. Imparo e ho avuto la fortuna di iniziare al City Group, che ha una metodologia, una filosofia che sta facendo benissimo in Europa da tanti anni. Non cambio chi sono, metto cose nuove con i valori vecchi che penso sia il connubio perfetto. E poi boh. Il sogno di allenare c’è. Non si può mai dire. Intanto penso a studiare e divertirmi, step by step, voglio godermi il presente ed è quello che conta.

Per inseguire il tuo sogno stai facendo anche il corso di allenatore UEFA Pro?
Questo sarà un anno di sacrifici, perché faccio il corso Uefa, il corso è due giorni al mese e abitando a 24 ore di volo sarò un po’ lontano dalla famiglia, prenderò un po’ d’aerei ma il patentino è una cosa importante e va fatto.

Da allenatore del Melbourne City Youth hai vinto il tuo primo campionato. Dopo il successo ti sei pure commosso.
Mi hanno fatto piangere come un bambino di dieci anni, mi hanno fatto emozionare. Nemmeno quando sono nati i miei figlioli ho pianto, penso. Quello è stato un anno incredibile pieno di lavoro duro, di soddisfazioni, vincere con dei ragazzi che ho scelto, vincere contro gli uomini, è stata una sensazione incredibile, è stato bello ed ho pianto come un bambino.

Come mai secondo te il calcio italiano non produce più i talenti di una volta?
I talenti secondo me ci sono. Bisogna avere più coraggio, se un ragazzo è buono lo butti dentro. All’estero è diverso: a 16 o 17 anni li fanno giocare. Per essere chiamato in Nazionale io ho giocato un centinaio di partite, ora è diventato più semplice. Per me a ogni convocazione dovrebbero essere convocati quelli che stanno più in forma in quel momento, i 23 più forti d’Italia: che abbiano 20 anni o 50. La Nazionale è un premio per quello che stai facendo. Con l'Italia deve giocare chi lo merita. I calciatori devono sperare a qualsiasi età di poter essere convocati. Non vedo perché chi fa bene a 34 o 35 anni non deve sognare più la maglia azzurra. Non c’è un bambino che non sogni di giocare con la maglia della Nazionale.

È sempre un'emozione vivere la maglia della Nazionale.
Io anche quando ero sicuro di andare non dormivo per due notti prima delle convocazioni. Pensate che la prima volta che sono stato convocato in nazionale, mi è venuta la gastrite tre giorni e quando debuttai avevo la febbre a 39 e ho vomitato per tre giorni.

A proposito di Nazionale tu hai un legame forte e un bel ricordo di un mito del calcio: Paolo Rossi. Come mai conoscevi bene Pablito?
Paolo Rossi era uno di famiglia, viveva a 400 metri da noi. Suo fratello Rossano mi allenava. Mio nonno era amico dei genitori. Alessandro, il figlio maggiore, lo vedevo d’estate ed eravamo assieme quando veniva dalla nonna. Quando è venuto a mancare qui a Prato è stata dura, gli volevamo tutti bene.

Hai ancora degli amici nel mondo del calcio?
Si, ce ne sono alcuni con cui  mi sento, direi sette o otto. Gli amici veri sono quelli di qua, che c’è fratellanza. Ma nel calcio ho grande amicizia con Dainelli, Natali, Galante, Vailani, Gilardino: io sono il padrino della sua terza figlia, lui è il padrino di mio figlio. Ma anche di Panagiotis Kone. Io giro molto, sono stato in Cina, in Inghilterra, in Australia quindi non ne stato facile, ne ho di amici in giro.

Tu sostieni che i giovani di oggi siano migliori, diciamo, più quadrati rispetto a quelli della tua generazione, come mai?
I valori sono sempre quelli. Mancano le informazioni e serviamo noi a dargliele. Io ho allenato i ragazzini di 17 – 18 anni, loro con le informazioni giuste si comportano bene, rispetto a quelli della mia generazione sono meno matti. Oggi sono più quadrati meno furbi, meno scaltri di noi. Noi siamo rimasti senza regole, perché stavamo fuori casa da mattina alla sera. Ora sono cambiate le cose, sono più centrati rispetto a noi. Il calcio è lo stesso, con le informazioni giuste i calciatori sono validi. In generale i ragazzi devono divertirsi e poi come diceva la mia povera nonna: ‘se son rose fioriranno'.

Tu sostieni che l'istinto sia fondamentale e i calciatori di tutte le età dovrebbero essere lasciati più liberi.
L’istinto è una cosa che va lasciata ai calciatori, io impazzisco oggi. Il giocatore fa meno cose d’istinto. Ogni giocatore ha l’istinto, c'è chi ha talento, tutti hanno l'istinto. Oggi faccio fatica nel vedere giocate che non mi aspetto, si vedono ancora ma sempre meno. Io ho sempre vissuto per quella giocata lì, ho sempre giocato per i tifosi, bisogna dare fiducia ai giocatori, lasciare loro le qualità, specialmente ai giocatori di talento, che sono tanti.

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