Aimo Diana: “Stavo male, dovevo scegliere tra Mondiale e carriera. Gattuso mi chiamò dopo la finale”

Aimo Diana ha macinato km nella sua carriera da calciatore e continua a farlo nell’area tecnica da allenatore. Da sempre è un uomo di campo e da quest’anno è allenatore dell’Union Brescia. Lui, che da ragazzino era un ‘curvaiolo’ dello stadio Rigamonti, oggi a 47 anni siede sulla panchina della Leonessa dopo esserne stato un calciatore simbolo a cavallo tra i due secoli. Il percorso con la nuova società è iniziato bene e il Brescia viaggia nella zona alta della classifica del girone A di Serie C ma Diana è un realista e non vuole voli pindarici nel suo gruppo di lavoro: "Dobbiamo seguire la strada tracciata dal presidente, l'obiettivo è creare i presupposti per la vittoria ma prima dobbiamo mettere le basi in un ambiente che ha vissuto anni difficili. Non dobbiamo farci prendere da facili entusiasmi dopo le vittorie o da pessimismo dopo passi falsi".
A Fanpage.it mister Aimo Diana si racconta a cuore aperto: una chiacchierata vera, tra passato e presente, dalle sue esperienze da calciatore al passaggio in panchina e alle nuove responsabilità. Un viaggio tra ricordi, emozioni e lo sguardo rivolto verso il futuro della nuovo progetto calcistico della Leonessa d’Italia.
Mister, partiamo dall’attualità. Come sta andando questa stagione dell'Union Brescia? Si aspettava un gruppo così dopo tutti i cambiamenti estivi?
"Sì, era quello che ci aspettavamo. Fuori dalla squadra c’era tanta attenzione su ciò che stava succedendo a livello societario, ma noi, dietro le quinte, lavoravamo. Fortunatamente siamo arrivati con uno zoccolo duro di giocatori e staff già collaudato, portando forza, voglia, intensità. Sapevamo che chi entrava in questo progetto trovava una base solida, con un anno di lavoro alle spalle. La vera incognita era: riusciremo a portare la nostra dimensione dentro una dimensione nuova? Pubblico, stadio, città… E direi che, pian piano, la gente ha cominciato a capire chi siamo davvero".
A Brescia, e non solo, si è molto discusso se questo sia o meno ‘il vero Brescia’. Lei come vive questo dibattito?
"Per me non c’è dubbio. Noi siamo il Brescia. È il Brescia la squadra, la tifoseria, la gente che ci segue. Il 95% dei tifosi ha abbracciato questo progetto, e questa è la risposta più chiara di tutte. Poi ognuno è libero di pensarla come vuole, ma la città oggi parla di Brescia, e questo basta".

A livello di campionato, com’è questa Serie C?
"Molto competitiva. Ogni partita è difficile, nulla è scontato. Ci sono allenatori giovani con idee, squadre organizzate. Alla lunga emergono i valori, ma ogni domenica c’è da combattere. E, credimi, a volte in C si vede del buon calcio, anche migliore di categorie superiori".
Da Bresciano al 100%, cosa significa per Diana allenare qui?
"È un orgoglio e una responsabilità enorme. Io sono stato curvaiolo, poi giocatore e ora allenatore. Non capita a molti. Quando è nata questa nuova società, sì, c’era apprensione: il mio nome, la mia storia, la mia famiglia sono qui. Ma mi sono affidato al campo e alle mie certezze, senza cambiare modo di essere. Non avrebbe senso snaturarsi per piacere alla piazza. Bisogna dire la verità, sempre".
Ha usato più volte la parola ‘storia’. E nella storia del calcio bresciano c’è la Voluntas. Cosa rappresentava per voi ragazzi di allora?
"Era il sogno di tutti. Ogni bambino della provincia voleva giocare nella Voluntas. Era la cantera del Brescia, l’élite. Ricordo il pulmino che girava nei paesi a prendere i migliori: dieci da un paese, dieci dall’altro, poi tutti al San Filippo per le selezioni. Io e Pirlo siamo saliti su quel pulmino. Lì capivi che potevi farcela. E i genitori? ‘Fate quello che dice Clerici e zitti'. Nessuna discussione. Era una scuola di calcio e di vita. Abbiamo girato il mondo: Dallas, Svezia, Cile. A dieci anni ero già su un aereo per l’America. Altri tempi, altri valori".

Ha nominato Pirlo. Mi hanno raccontato da ragazzini un paio di volte siete scappati dal ritiro per andare a incontrare la fidanzatina e quando rientravate l’allenatore era lì pronto ad aspettarvi. È vero?
"Eravamo inseparabili. Suo padre ci portava al campo, mia madre veniva a prenderci. Vivevamo a pochi chilometri di distanza, Flero e Poncarale. Siamo cresciuti insieme e condiviso anche qualche ‘marachella’. Era un’amicizia pura, e lo è ancora oggi".
Ha sempre dato grande importanza all’identità di gioco. Quanto conta, oggi, per una squadra di Serie C avere un’idea precisa?
"Tantissimo. Non è semplice, ma un allenatore deve saper trasmettere i propri concetti e convincere la squadra. La nostra forza è sempre stata quella: avere giocatori che credono nel lavoro. Con gli anni sono diventato più solido, meno "sperimentatore". Ho imparato che ai giocatori di livello serve chiarezza. E, dopo qualche errore (penso ai mesi di Vicenza), ho trovato un equilibrio. Le cadute servono per migliorare".
Il ruolo dell’allenatore è cambiato negli ultimi anni perché è cambiato il mondo: quanto contano oggi la comunicazione, interna ed esterna, oltre alla gestione del gruppo e alla gestione tecnica?
"Serve empatia e linguaggio giusto. Non basta il ‘bastone e carota'. Devi saper parlare come loro, capire il mondo dei social, il loro modo di vivere e il linguaggio. L’importante è essere sinceri. Se un giocatore sbaglia, glielo dico in faccia. La leadership nasce anche da questo".

Ha avuto tanti allenatori importanti, chi le ha lasciato di più?
"Tanti. Lippi, Mazzone, Novellino… All’epoca l’allenatore era una figura quasi sacra. Ti spostavi se lo incrociavi nei corridoi! Oggi è tutto più diretto, ma un po’ di quel rispetto andrebbe recuperato. Lippi in Nazionale era un maestro nella gestione umana: ti faceva sentire parte di un gruppo anche se non eri un titolare fisso".
A proposito di Nazionale: Diana era nel gruppo di Lippi che ha poi vinto il Mondiale 2006 ma non venne convocato per un infortunio…
"Ero tra i 23, ma avevo un’ernia inguinale bilaterale. Mi trascinavo questo problema da febbraio, quando Novellino mi chiese uno sforzo e arrivai a pezzi a fine stagione. Quando arrivò il momento del ritiro non camminavo più. Dovevo scegliere: Mondiale o carriera. In quel momento se non mi fossi operato non so quanto avrei giocato successivamente. Mi fossi fermato a febbraio, sarei salito sull’aereo per la Germania anche io. Gattuso mi chiamò dopo la finale: un gesto che non dimenticherò mai e che fa capire lo spessore di quel gruppo".

Ha vissuto stagioni epiche, dal Parma alla Sampdoria, passando per la Reggina. C’è un ricordo che si porta dietro più dei altri?
"Tanti. La Coppa Italia col Parma, la stagione con la Sampdoria quando mancammo la Champions per un punto e le battaglie a Reggio Calabria per salvarsi. Era un calcio diverso, più ‘vero’ sotto molti punti di vista. E poi certi compagni… A Reggio, ad esempio, in attacco avevamo Cozza, Bonazzoli e Di Michele: oggi probabilmente sarebbero titolare in Nazionale".
Torniamo un attimo al Brescia. La squadra più bella, probabilmente, è stata quella del 2001 con Baggio, i gemelli Filippini, Bonera, Pirlo, Hubner, Tare e Diana con direttore d’orchestra Carlo Mazzone…
"Una favola. Tanti bresciani, un gruppo unito, e poi lui: Roberto Baggio. All’inizio non stava bene, ma da gennaio ha cambiato tutto. Ogni punizione era gol, ogni tocco una magia. Giocare con lui era come dare la palla in banca. E poi Mazzone, un gigante. Quell’anno abbiamo fatto la storia: la prima salvezza in Serie A, poi l’Europa. E ricordiamolo: fu Mazzone a inventare Pirlo regista, non Ancelotti. Ricordo il momento in cui gli disse: ‘A regazzì, se vuoi giocare ad alto livello devi giocare qualche metro indietro…’. Andrea lo capì al volo. Da lì è iniziata un’epoca".
Diana è stato un calciatore muscolare, aerobico e dotato di una buona tecnica: ha fatto il terzino e il laterale a tutta fascia, oggi dove giocherebbe?
"Credo nella difesa a tre a destra. Conduzione, spazio. Tipo quello che Bastoni all'Inter, ma lui lo fa a sinistra. Senza paragoni, però quel tipo di giocatore".

Nel suo lungo viaggio in panchina Aimo Diana ha vinto il campionato con la Reggiana e sa come si vince in Serie C. Quali sono i prossimi passi del progetto Brescia e cosa chiederà alla sua squadra nel prossimo futuro?
"Il futuro del Brescia è seguire la strada tracciata dal presidente Pasini: ovvero un progetto triennale. L'obiettivo è creare i presupposti per la vittoria e consolidare le basi in un ambiente che ha vissuto anni difficili. Questo richiede tempo anche per sanare anche le piccole spaccature che ci sono ancora nell’ambiente. Non dobbiamo farci prendere da facili entusiasmi dopo le vittorie o da pessimismo dopo passi falsi, ma a seguire la visione del club".