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Io e Nibali, tredici anni in scia dell’uomo simbolo di un’Italia che non si arrende

Era il 2001 quando abbiamo corso insieme per la prima volta, lui era già il migliore. Dall’Argentina al Mont Ventoux in giro per il mondo con l’uomo simbolo degli italiani che pedalano, che non si arrendono alla fatica…
A cura di Davide Falcioni
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Era magrolino, come me, e aveva una bici gialla come la mia. Era una domenica di luglio del 2001, eravamo in un paesino in provincia di Rieti. Roccasinibalda. Faceva un caldo da Africa nera, una fontana in mezzo alla piazza schizzava acqua "benedetta". Benedetta da noi corridori e dai paesani, che ci ronzavano intorno e sbirciavano tra le nostra ruote, cambi, telai, divise. Era una gara di ciclismo, categoria juniores, 16-17 anni. Io attendevo la partenza vicino a Nibali. Ricordo come fosse ora che un signore si avvicinò a lui, diede un'occhiata al numero sulla schiena poi controllò che corrispondesse a quello scritto sulla lista dei partenti. "Vincenzo Nibali. Quindi sei tu quello che è venuto qui da Messina?", domandò il tifoso. Nibali fece un cenno col capo, rispose di sì. Il signore, allora, pensò bene di rincarare la dose. "E quante corse hai vinto quest'anno?". Nibali rispose che ne aveva vinte 5, o 6, non ricordo. Io non ne avevo vinta neanche una, ma questa è un'altra storia.

La gara quel giorno andò così. Pronti, via, mi attaccai alla ruota di Nibali sapendo che prima o poi avrebbe provato a staccare tutti sulle rampe di una salita durissima: talmente dura che a 13 anni di distanza ne ricordo ancora il nome, Stipes. E' quello che fece. Io sputai l'anima per rimanere sulla sua ruota e ce la feci per un bel pezzo. Poi, quando proprio non ne potevo più di quella fatica disumana, delle trenate di quel diavolo siciliano, arrivò provvidenziale una rottura della bici. Giuro che fui quasi contento, avrei avuto una scusa valida per illudermi che Nibali, il piccolo fenomeno, non mi aveva staccato. Era la bici che s'era rotta… Quella fu la prima volta che mi scontrai con lui. Essendo coetanei accadde ancora per sei anni, ma dopo quel giorno a Rocca Sinibalda non ebbi più scuse. Nibali era immensamente migliore di me. Per un curioso gioco del destino non ci siamo mai persi di vista. Quando iniziai a lavorare come giornalista seguii la tappa della Marmolada al Giro d'Italia del 2008. Ricordo che lui andò in fuga sotto un freddo cane, e che io lo attendevo in mezzo ai suoi tifosi di Mastromarco (un paesino vicino Pistoia): litri di vino, "rostinciane", pasta asciutta, grappa. Quando passò Nibali per poco non venne giù la montagna, tanto era il baccano che fecero quegli hooligans nostrani (che si fanno chiamare Cannibali: tra loro mi piace ricordare Bruno Malucchi, l'uomo che lo prese nel “suo nido” quando Vincenzo era poco più che un bambino).

Poi al Tour del 2009, prima a Verbier poi sul Mont Ventoux. Quell'anno terminò al settimo posto la Grande Boucle. I giornali iniziaono ad accorgersi del siciliano e a scrivere che stava sbocciando un campione. Nel 2010 ci trovammo in Argentina. San Luis, una bella città a 5 ore da Rosario. Era la prima gara della stagione (Tour de San Luis). Ricordo i paesaggi deserti, le lunghe strade desolate, gli sguardi dei contadini quando passava la corsa colorata. E ricordo l'aria da gita che si respirava tra corridori e giornalisti al seguito. Passai molte sere insieme a Vincenzo. Perlopiù si scherzava. Ma quando fu il momento di fare sul serio non ce ne fu per nessuno. Nibali vinse il Tour de San Luis, io ero lì a raccontarlo. In aeroporto, prima di tornare in Italia, mi regalò la maglia arancione del vincitore. La sera prima – a cena con il governatore della regione – finì a brindisi. Poi qualcuno "rubò" un furgone della radio per festeggiare, di quelli con gli altoparlanti sul tetto: scendemmo nella città e uno dei corridori cominciò a urlare in spagnolo: "Uscite, c'è il Nibali che paga da bere a tutti". Era mezzanotte passata. Vincenzo si divertiva da matti, ma sulla piazza della cittadina effettivamente si formò un capannello di decine di curiosi. Ci toccò scappare o avrebbe speso un occhio della testa. Di lì a 8 mesi avrebbe vinto la Vuelta di Spagna. Poi sarebbe stata la volta del Giro. Poi due Tirreno – Adriatico staccando in salita sia Froome che Contador. Oggi Vincenzo Nibali vince il Tour de France ed entra nella storia dello sport, nella ristretta cerchia di campioni ad aver trionfato in tutte e tre le grandi corse a tappe (Jacques Anquetil, Felice Gimondi, Eddy Merckx, Bernard Hinault e Alberto Contador). Nibali è tra i grandi di questa disciplina ed oggi è uno degli sportivi più acclamati.

Ma Nibali oggi è anche un simbolo. Immigrato a 16 anni dal Sud Italia, il messinese è l'immagine degli italiani che pedalano, di quelli che non si arrendono alla fatica ma la “usano” per migliorare e migliorarsi, e lo fanno con onestà e sacrificio. Nibali piace malgrado abbia uno stile semplice, sobrio, timido: dimenticate i Balotelli e i Cassano, Vincenzo non ha creste stravaganti in testa, non guida (o distrugge) Ferrari, non si è deturpato il corpo con bizzarri tatuaggi. E' l'anti-personaggio. Incarna lo sportivo tradizionale: si allena per 40mila chilometri all'anno, va a letto presto. E' l'erede di Bartali e di Gimondi, di Moser e di Pantani. Operai della bicicletta benedetti da un talento infinito. Nessuno ha mai visto Nibali in un “locale vip”, piuttosto in un bar di Mastromarco con gli amici di una vita ma da un po', più probabilmente, a casa con moglie e figlia. Fa bene all'Italia Nibali. Fa bene a un popolo distrutto da una “crisi” infinita, che è economica ma è soprattutto etica, costretto ad assistere a scontri tra galletti con cadenza quotidiana, a continue iniezioni di mediocrità celata sotto maschere da “ribelli” (o, quando va bene, rottamatori). Gli italiani impareranno ad amarlo perché in questo siciliano che oggi si fascia di giallo potranno rivedere l'essenza della loro storia.

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