Franco Bertoli: “Ero Mano di Pietra per le mie schiacciate, ora alleno la mente dei giovani manager”

Franco Bertoli è un simbolo della pallavolo italiana. Pochi hanno avuto il suo impatto sul volley continentale e il suo ruolo da Ambassador della FIPAV, assegnatogli nel 2024, lo dimostra. Capitano storico della Panini e capitano olimpionico dell’Italvolley, con cui si è aggiudicato la medaglia di bronzo ai Giochi di Los Angeles del 1984 (prima volta sul podio olimpico per questa disciplina); oggi Bertoli allena la mente dei giovani manager di grosse aziende al Politecnico di Milano e all'Università di Bologna e a Fanpage.it parla proprio di questo passaggio da sportivo a coach, sportivo prima e mental dopo.
Cosa fa oggi Franco Bertoli. Dalle schiacciate all’università: che percorso è stato?
"Lungo, perché sono passati molti anni. Nel post-carriera ho allenato e sono stato dirigente a Modena, due momenti che mi hanno dato tanto. Poi ho avuto un’impresa, con cui ho lavorato negli stadi di calcio; e sono stato commentatore a Sky Sport. Mi sono occupato di politiche giovanili al CONI, ho fatto il consigliere federale e della Lega Pallavolo per i club. Questa parte mi ha stimolato molto a livello personale e ho studiato il coaching, la maieutica e il ‘tirar fuori’ il meglio dagli altri. Un po’ lo facevo già da dirigente, da allenatore e da capitano, quindi ho seguito quella linea e oggi faccio lo stesso con persone che a volte non conosco e provo a lavorare su alcuni spunti per migliorare loro stessi, ma di conseguenza le loro aziende, il loro lavoro e la loro famiglia. Quello che sei è più importante di quello che sai. Siamo cresciuti con la frase ‘Più sai e più sei bravo’ ma io dico ni perché ci vogliono le competenze e la giusta energia da mettere in campo quando è il momento".
Il mondo in cui viviamo ci obbliga al risultato a tutti i costi: non è che ci stiamo perdendo qualcosa?
"Per vivere bene dobbiamo stare nel viaggio, nel percorso, nel processo… Credo che il vero problema è che se tu stai sempre nel risultato e nell’obiettivo, si vive nel futuro ma il futuro è un mistero. Se uno si impegna al massimo oggi, non vive di ansie in vista del futuro: le aspettative creano sofferenza e pensieri spazzatura. Il tema della vita è proprio il viaggio, ovvero la performance. Molti la confondono con il risultato, ma non lo è. Diversi atleti negli ultimi tempi hanno detto ‘vinco perché sono felice’ non il contrario. Questo dovrebbe far capire tante cose. L’energia che sei e lo stato d’animo che porti con te fanno la differenza, perché tutti hanno cadute e sconfitte ma dipende dall’energia che uno ha per continuare il cammino".

A questa situazione quanto hanno contribuito i social?
"Non saprei dirlo con certezza, ma sicuramente qualcosa hanno fatto. Io sono d’accordo con l’Australia su divieto dei social Under 16 perché bisogna avere gli strumenti per capire la realtà in cui si vive. Anche la serie ‘Adolescence’ ha aperto la finestra su un mondo che in tanti ignoravano e bisogna stare davvero molto attenti. Vedo sempre più genitori che vietano i social ai loro figli fino ad una certa età ma ci vorrebbero delle regolamentazioni statali che aiuterebbero a velocizzare i processi. Si tratta di un tema grande che, però, va affrontato proprio per come è articolato. Anche nel mondo del lavoro bisognerebbe fare una grande riflessione sull’uso del telefono perché spesso e volentieri la gestione del digitale è fondamentale per la prestazione di un manager o di un qualsiasi dipendente. È un tema molto serio e complesso".
In che modo si formano i giovani manager di grosse aziende? Cosa le chiedono e da dove si parte.
"C’è una parte legata alle competenze, a seconda del mondo dove vuoi lavorare; e poi c’è una parte umana e sulla relazione. Nei percorsi che faccio a Bologna e Milano proviamo a portare proprio questo e quello che noto di più è una mancanza di formazione sulla relazione. Devi avere le competenze per fare le cose corrette ma c’è bisogno di leadership. La parte umana è determinante, la nostra capacità di ‘essere’ fa la differenza".
Ci sono degli atleti che lei prende come esempi per i suoi studenti?
"Io lo vedo nei temi della longevità sportiva io ritengo che questi atleti hanno un grande mindset, oltre alla grande qualità tecnica-fisica sono autodisciplinati e per continuare a giocare quando hai vinto tanto, fatto una buona carriera e guadagnato tanti soldi devi essere sempre sul pezzo, se non di più degli altri, per rimanere ad un certo livello. Cristiano Ronaldo è un esempio lampante ma un altro può essere LeBron James. La passione è un’altra grande energia che ti porta ad andare avanti in quel modo".
Parliamo un po’ di pallavolo. Cosa pensa del momento che sta vivendo il movimento italiano?
"Non dobbiamo darlo per scontato ma è un momento di grandi successi a tutti i livelli. L’oro della Nazionale femminile è qualcosa di clamoroso ma io aggiungo anche il quarto posto della maschile: noi siamo alle Olimpiadi ininterrottamente dal 1976 e questo vuol dire essere sempre ai vertici. In più c’è un movimento giovanile che fa paura perché abbiamo campioni del mondo ed europei a diversi livelli: questi percorsi e questi risultati garantiscono una continuità ad altissimi livelli. Si vede la punta dell’iceberg ma è un movimento sano in tutto. Bisogna avere cura di quello che è stato creato e portarlo avanti perché così arrivano sponsor e la crescita può continuare così come si può vedere oggi. Io sono molto onorato di essere Ambassador della FIPAV, per questo sono riconoscente a Manfredi, e mi fa molto piacere poter contribuire".
A proposito di Nazionale: un oro ai Giochi del Mediterraneo di Rabat nel 1983 e bronzo alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Che ricordi si portano in valigia a distanza di anni?
"Ricordi bellissimi, perché all’epoca il risultato era già qualificarsi mentre oggi chi vede un bronzo magari storce il naso. La passione che mi sosteneva ai tempi era enorme perché i miei mi permisero di giocare ma dovevo comunque portare a casa il pezzo di carta (titolo di studio, ndr). La pallavolo non mi arricchiva minimamente, non era un mestiere e studiare di fianco per poter lavorare successivamente. Sono temi di allora che, magari, portati all’attenzione oggi fanno capire come dietro ad ogni cosa ci sia impegno, passione e della fiducia. In se stessi, prima di tutto, e poi negli altri. Sempre con grande umiltà, credendo nel lavoro".
Bertoli ha vinto tanto e con tante maglie: come si riesce a stare ad alti livelli ed essere sempre decisivi come ha fatto lei?
"Sono felicissimo del mio palmares e quando venni nominato ‘miglior giocatore d’Europa’ nel 1983 ero incredulo, quando mi chiamarono ma erano tutti d’accordo, compresi i grandi campioni di altre squadre. Io sono stato il primo a battere in salto e il primo ad attaccare dalla seconda linea: facemmo un lavoro enorme insieme ai miei allenatori e sono da sempre riconoscente a Prandi ancora prima di Velasco perché mi ha lanciato. Io ho vinto lo Scudetto e la Champions da giocatore, allenatore e dirigente ed è una cosa che non capita spesso".
A proposito di Julio Velasco, che personaggio è e come riesce ad entrare sempre in sintonia con le sue squadre?
"Julio conosce benissimo la pallavolo in tutte le sue sfaccettature ma è in grado di instaurare un rapporto, un dialogo, con i suoi atleti che gli permettono di andare oltre. Questo suo modo gli permette di spingerli verso il proprio meglio, così come ha fatto con le ragazze dell’Italvolley. Ha sempre avuto grande attenzione sotto questo punto di vista, sia per il team che per le individualità: quando era mio allenatore aveva degli approcci individuali con ragazzi più piccoli di me che erano differenti da quello che aveva con il sottoscritto. Questa cosa lo diverte e lo stimola, ma lo contraddistingue da tutti gli altri".
A Modena ritirarono la sua numero 4 e poi fu lei stesso a riconsegnarla a Petric: una situazione molto particolare?
"È una storia un po’ complicata perché è stata la società a volerla rimettere in campo, la scelta fu della presidentessa. Alla società serviva ma nonostante le polemiche io ho cercato di essere più corretto possibile. Un po’ mi è dispiaciuto ma non mi sono messo di traverso. La festa dei tifosi rimarrà incancellabile e quella rimane".

Perchè Franco Bertoli è stato soprannominato ‘Mano di Pietra’?
"Perché all’inizio della carriera schiacciavo veramente forte. In quel periodo c’era un pugile, Roberto Durán, che veniva chiamato ‘Manos de Piedra’ e hanno cominciato a dire che io picchiavo duro come lui".
Con i progressi della tecnologia tutti gli sport sono cambiati, nel bene e nel male: come e se è cambiata la pallavolo, secondo lei?
“Sicuramente fisico, come succede un po’ in tutti gli sport. Sono più veloci e il gioco è molto più veloce, lo studio degli avversari è cambiato anche grazie agli strumenti a disposizione. Si è evoluto fisicamente, nella velocità e nella potenza. La preparazione fisica è completamente diversa, gli integratori ai miei tempi neanche c’erano e la differenza è evidente. Questo ha portato anche all’allungamento della carriera. Velocità ed esplosività. Inoltre, io ritengo che a livello di tempi c’è bisogno di tornare sotto le due ore e dopo diventa un po’ lungo".