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Domenico Iannacone: “La mia libertà di raccontare è una croce e un privilegio”

Domenico Iannacone racconta a Fanpage.it la quarta stagione di Che ci faccio qui: “Sento che il pubblico ha recepito questo modello”. Sulla collocazione al sabato sera: “Strano che il mio programma venga messo in una sorta di competizione con programmi con target simile, lo trovo penalizzante per me, per Alberto Angela e per la Rai”.
A cura di Andrea Parrella
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In una Tv fatta di fedeli ripetizioni e tagli verticali, ci sono prodotti che finiscono per fare scuola. È il caso di Che ci faccio qui, di Domenico Iannacone, divenuto in poche edizioni il riferimento di una sorta di manifesto della Tv "lenta", riflessiva, allergica alla sintesi. Nella nuova stagione, cinque puntate in prima serata al sabato sera, su Rai 3, Iannacone è tornato a raccontare storie con uno stile inconfondibile, diventato un marchio di fabbrica, che ci ha raccontato in questa intervista.

Dopo quattro stagioni di Che ci faccio qui ti percepisci come un modello?

Ho la percezione di aver creato qualcosa, ma non devo dire io di essere un riferimento. Mi fa piacere solo una cosa: sento che il pubblico ha recepito questo modello. È come se chi mi guarda riconoscesse un modo diverso di fare televisione.

La domanda non è per piaggeria, ma per capire quanto incida la percezione altrui nel fare Tv. Gli elogi non rischiano di offuscare le storie?

Più che elogi vuoti, io capisco che c'è una comunità che segue questo programma, una comunità portatrice di istanze. Anche sui social avverto una vicinanza che mi fa capire questo programma rappresenti chi lo guarda. È un impegno ulteriore, un'istanza da cui non posso sganciarmi.

La riconoscenza della comunità che ti segue ha inciso sul tuo modo di lavorare?

All'inizio mi muovevo in maniera un po' defilata e isolata, mentre oggi capisco che alle spalle c'è una collettività che rappresenta, a sua volta, una responsabilità. La responsabilità di non tradire mai.

Che ci faccio qui da sempre racconta gli ultimi, degli emarginati, o di chi si occupa di loro. Un programma con un chiaro intento politico, pur senza slogan.

Assolutamente, io so che questo è un programma che svolge un'azione politica, pur non essendo prettamente legato all'agenda. Anzi va contro quest'ultima, in direzione opposta e contraria a un'agenda politica che manipola i bisogni della gente e offusca la società. Quando la politica interviene senza slogan, la verità appare per quella che è.

Sono standard molto alti da rispettare, l'errore è dietro l'angolo. Hai mai vissuto la sensazione di andare fuori giri?

Nel momento in cui io racconto delle storie sento che ogni volta è più complesso, perché le persone si aspettano che gli errori non si facciano mai. È un lavoro che comporta un certo stress in tutte le sue fasi.

È una pressione che ti fa lavorare meglio o peggio?

Meglio perché essendo sganciato da tutto io sono libero di raccontare e questa è una croce e anche un privilegio. Posso scegliere tutte le strade.

Ogni stagione ha un suo filone. Qual è quello che caratterizza questo ciclo?

I temi anche di queste cinque prime serate sono in continuità, hanno a che fare con l'emarginazione, il ricatto occupazionale, l'idea di nascere in un posto sbagliato e avere un destino segnato che fa parte della nostra esistenza. Nella puntata "Amore perduto" raccontiamo la storia di una persona alla quale, a 12 anni, era stato imposto di uccidere la madre. Le spara perché gli viene imposto dalla Sacra corona unita ma non la uccide, finisce in un vortice in cui non è più uomo e fa 27 anni di carcere. È una cosa che fa pensare a dove nasci e al fatto che non hai scampo. Un problema che la società deve porsi.

Come arrivi alle tue storie? Le scopri o te le segnalano?

No, le scovo io, mi arriva un pezzo. Diciamo che quando vado in un posto ascolto quello che mi passa vicino. La cosa che mi piace pensare è che nei prossimi anni potrei raccontare le storie accumulate in dieci anni che si sono evolute, mostrando come cambi la società.

Che ci faccio qui è un programma immaginato per avere una fine, oppure è per te un contenitore inesauribile?

Io penso che raccontando la vita nella sua libertà, questo programma ha sempre possibilità di esprimersi e un'incapacità di esaurirsi. Ha un mandato aperto.

Immagini anche modalità diverse?

Questa è la forma narrativa che più mi si cuce addosso, ma una possibile evoluzione è quella di reinserire uno studio televisivo, come accaduto per la prima stagione di Che ci faccio qui.

In quella stagione, tra l'altro, c'era un'atipica intervista a Letizia Battaglia, scomparsa di recente. 

Sì, l'ho rivista in questi giorni e ho ricordato anche di aver scelto delle altre cose, fare un percorso con se stessa insieme a quello che mi raccontava. Lo ricordo come un bellissimo momento.

La tua fisicità, l'espressione, la presenza, sono un tratto caratteristico delle interviste. Non è una presenza narcisista, ma indispensabile. 

Io sono una mera levatrice che fa nascere un incontro, servo solo a quello. Devi esserci e non essere l'elemento prevalente, presenziare ma arretrare costantemente.

Quest'anno c'è una nuova collocazione al sabato sera, più ostica dal punto di vista degli ascolti. In che modo i numeri influiscono sul tuo lavoro?

I numeri hanno influenza nella misura in cui non proteggono il programma, questo è l'unico timore che ho. Su ciò che ho fatto e quello che ho fatto non ho paure in questo senso. Da quando faccio televisione sono stato collocato in tutte le serate possibili, forse mi mancano solo martedì e mercoledì. Non posso negare di trovare strano che il mio programma venga messo in una sorta di competizione con altri programmi con un simile target, come Alberto Angela su Rai1. Credo sia una cosa che indebolisce la Rai, non soltanto me o – chiaramente meno – Alberto Angela.

E poi c'è il tuo primo podcast, uscito negli ultimi giorni. Un'esperienza di racconto nuova e diversa. 

Mi piace, perché io penso la radio abbia una forte valenza comunicativa. È come se avessi voluto ridare peso al mio modo di percepire, avevo il bisogno di comunicare perché faccia le cose e come le sento. Soprattutto direi che, a differenza di quanto accade in Tv, espongo me e ciò che provo.

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