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Allevi, Fedez e la condivisione pubblica della malattia che fa stare meglio

Nelle ultime settimane diversi personaggi hanno portato all’attenzione pubblica i propri problemi di salute. Benché un abusato retropensiero veda certi annunci come scelte redditizie, ci si dimentica che scegliere come e quando raccontarsi, anche nel dolore, è protettivo, oltre a coinvolgere chi si sente chiamato a mostrare solidarietà.
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A cura di Andrea Parrella
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Ognuno racconta quello che vuole, ritiene urgente, necessario, utile. Quanto accaduto negli ultimi giorni con i casi di Giovanni Allevi, Fedez e Justin Bieber merita una riflessione. Ci interroghiamo spesso, e il più delle volte con tono critico, sull'opportunità di andare a scavare in alcune questioni delicate dei personaggi pubblici. "Guardare nel buco della serratura" è la frase che per eccellenza identifica una forma di voyeurismo eccessivo che rende lecito l'atteggiamento comune di andare a scavare nel profondo, scoperchiando cose spiacevoli, dolorose, sconvenienti.

Fedez si mette a nudo, racconta la sua sofferenza, il dolore nell'aver appreso di dover affrontare un tumore, l'operazione stessa, la riabilitazione. Justin Bieber si apre raccontando pubblicamente  dei suoi problemi di salute, della ripercussione che potrebbero avere sulla sua vita e sulla sua carriera. Giovanni Allevi rivela pubblicamente di avere una neoplasia e lo stesso Fedez ci tiene a mostrargli tutto il suo appoggio. Sono cose che colpiscono, soprattutto perché contribuiscono a tracciare i confini dell'immaginario contemporaneo in cui condividere certe debolezze rafforza.

Cos'hanno in comune queste tre manifestazioni? Cosa spinge una persona a raccontare pubblicamente cose tanto intime? È forse debolezza, o forse narcisismo, o un misto delle due cose? Fedez non ha negato, nel dare spiegazioni sulla decisione di condividere pubblicamente l'audio in cui parla al suo analista della paura di morire, di cercare anche una carezza in risposta, quindi di cercare un motivo di forza in quella condivisione. Ma oltre alla funzione consolatoria c'è dell'altro.

Siamo sempre stati abituati al fatto che certe notizia arrivassero dai giornali, le televisioni, le riviste di gossip, muovendosi sul ciglio di quel confine labile che separa la vita privata e quella pubblica dei personaggi. Rivelazioni di questo tipo un tempo sono state più rare perché significavano implicitamente il doverle raccontare a qualcuno che le riportasse, si trattasse di un'intervista alla carta stampata o alla televisione. Il susseguirsi di annunci come questi nelle ultime settimane non vuol dire statisticamente che più vip di prima stiano male, ma ridefinisce i confini di un mondo in cui regna la totale personalizzazione del racconto di sé. Sono gli stessi personaggi pubblici a portarci nella serratura che affaccia sulla loro vita, scegliendo di condividere anche i momenti più privati e profondi. Essere invitati a guardare e mostrarsi solidali è ben diverso dall'essere guardoni, cambiano anche le regole d'ingaggio.

Il dolore è profittevole, diranno i malpensanti, associando impropriamente la condivisione con la redditività del gesto. Nel fare questo ragionamento approssimativo non si tiene però conto di una cosa che capita a tutti noi che usiamo, in modo più o meno frequente, gli strumenti social per parlare di chi siamo: raccontarsi è protettivo, significa poter gestire la propria storia, tutelarsi dall'invadenza. Nient si sposa con l'era che stiamo vivendo, in cui è cambiato il paradigma dell'esposizione dei personaggi pubblici. È un discorso che ha a che fare con l'evoluzione dei media, ma ha soprattutto a che fare con noi.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare la realtà che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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