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Stefano Massini: “Il governo taglia la cultura perché non sa gestirla. Le antologie scolastiche diano spazio alle donne”

Intervista a Stefano Massini, drammaturgo, attore, scrittore, volto di Piazza Pulita e di Riserva Indiana su La7 e Rai3. Attraverso la sua scrittura e le sue parole prova a suscitare riflessioni, scardinando le resistenze del potere, come con lo spettacolo teatrale Donald, in cui racconta la parabola di Trump.
A cura di Ilaria Costabile
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Stefano Massini non ha certo bisogno di presentazioni. Drammaturgo, scrittore, attore, regista: da sempre il teatro è la sua vita, sui listoni legnosi del palcoscenico ha scoperto sé stesso e quella necessità di raccontare, perché la parola e la scrittura sono "un'alta forma di altruismo". Da qualche anno, ormai, è entrato pienamente nel circuito televisivo. Da Piazza Pulita a Riserva Indiana, dai monologhi spiazzanti ai dialoghi delicati con gli autori più svariati della musica italiana, l'artista toscano affonda le mani nella cultura del nostro Paese, cercando di suscitare reazioni e riflessioni in chi lo ascolta. Da metà ottobre porta nei teatri lo spettacolo Donald, in scena anche al Teatro Bellini di Napoli, sulla scalata di Donald Trump in un vorticoso racconto tra passato e presente, che spoglia l'uomo più potente del mondo di quell'aura di invincibilità, alimentata solo da menzogne e paure che, a ben guardare, potrebbero interessare anche gli italiani.

Uno spettacolo teatrale incentrato sulla figura di Donald Trump. Perché?

Il teatro si è sempre occupato del potere, delle sue cecità, delle sue arroganze. Ho deciso di fare questa cavalcata impressionante all'interno di 60 anni di vita, da quando nasce Trump, fino al momento in cui dà una svolta alla sua carriera entrando in politica. È una corsa paradossale, racconto la vita di un uomo che ha vissuto in modo verticistico la propria esistenza, guardando gli altri dall'alto come fossero formiche, fino ad entrare lui stesso nel formicaio. Una differenza incredibile con le altre forme di potere autocratico.

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Quale sarebbe?

Prendiamo i grandi dittatori del 900. Adolf Hitler, Stalin, Mussolini venivano dalla massa. Hitler faceva la fame a Vienna, è stato costretto a dormire nel cosiddetto albergo dei poveri e a ritrarre la gente che lo voleva per strada. Stalin veniva da una famiglia poverissima, anche Mussolini. Qui c'è un meccanismo diverso e il punto di riferimento delle masse diventa uno che le masse le ha sempre schifate.

È quasi un'epifania: ci si rende conto che Trump non è stato mai realmente guidato da un lodevole interesse politico, quanto da un istinto di salvazione nei confronti di sé stesso. Toccato il fondo doveva trovare il modo di risalire. 

Sono molto d'accordo. Aveva puntato per tutta la vita in alto, era stato il figlio più favorito e avvantaggiato dagli anni d'oro del reaganesimo, dove il ceto medio era ad un passo dal diventare milionario. L'illusione collettiva per cui tutti possono ambire a diventare grandi, quindi si comportano come se prima o poi questo potesse accadere, lo stesso Trump che ha costruito casinò, hotel, ristoranti, poi finita l'era Reagan, con la Guerra del Golfo è tutto catastroficamente naufragato. L'unico modo per uscire da quelle sei bancarotte della Trump Organization, era un progetto d'eccellenza nel quale prometteva di scendere, invece che salire, ma è stato solo un trucco.

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Un trucco che ha convinto gli americani per ben due volte, sebbene Springsteen abbia detto da Fazio che l'America non abbia una storia di autocrazia. 

Questa versione numero due di Trump è molto diversa. Concordo con chi dice che il momento drammatico che si ebbe alla conclusione del primo mandato, cioè l'assalto a Capitol Hill, ha aperto una pagina completamente nuova e senza precedenti nella storia degli Stati Uniti e lui adesso è il figlio di quanto è accaduto. Quando fu costretto ad intervenire usò il tono di uno defraudato di un risultato elettorale che gli spettava e millantava il ritorno. Quando è tornato l'ha fatto con un passo diverso, con la minaccia pragmatica di togliere i finanziamenti alle università dove si contesta, le trasmissioni televisive nelle quali c'è qualcuno che contesta, togliere l'accesso agli Stati Uniti in America a chi va lì con delle idee diverse dal presidente. Il mondo deve genuflettersi davanti a lui.

Un clima che non sembra molto dissimile da quello che si respira oggi in Italia. I tagli all'audiovisivo proposti dal Ministero della cultura ne sono un esempio. 

La mia sensazione è che loro non riconoscono la cultura come un settore sul quale possano esprimere davvero la loro supremazia. Hanno provato a sostenere che la cultura fosse nelle mani di qualcuno che l'aveva viziata, convincendo le persone che la cultura fosse solo di un certo potere politico, provando a far entrare i loro. Il problema è che, poi, sono delle figure che non riescono a canalizzare gli interessi delle masse, non ce la fanno, non hanno argomenti. E quindi, non essendoci persone competitive sul piano delle idee, tagliano. Ma anche questa è una finzione collettiva.

Stavolta di che tipo?

Ti faccio un esempio. Se in una scuola fai vedere a dei bambini un cartone animato in cui Bambi ha un colore del pelo diverso dagli altri e perciò viene allontanato, immediatamente ci sarebbe la sollevazione di tutti i genitori, compreso chi si definisce di destra, perché ai bambini non deve essere insegnato questo. Poi diventano ragazzini, adulti e allora iniziano a maturare delle differenze. A volte ci dimentichiamo che, davvero, i valori su cui costruiamo l'educazione cambiano nella crescita, da adulti si guarda alle rabbia, la paura, come valori su cui erigersi.

A proposito di educazione, crescita, valori. Il Ministro dell'istruzione ha limitato, vietato, di parlare di educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Sembra non si voglia arrivare al nocciolo della questione. 

Abbiamo avuto in Italia una catena di femminicidi in queste settimane, impressionanti, che non possono non farci scandalizzare. Sull'inserimento dell'educazione sessuo-affettiva nelle scuole il Governo ha ancora da ragionare? Da ex insegnante, dico che il problema parte da prima. Un'antologia scolastica sulla storia della letteratura italiana è tutta fatta da uomini. Sono pochi gli insegnanti che riescono a trovare spazio, tempo, modo di raccontare cosa hanno scritto Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Matilde Serao. Quando inizieremo ad insegnare nelle scuole che l'Italia ha avuto grandi poetesse e che il metodo di Matilde Serao non era inferiore a quello dei suoi coevi, quello sarà un servizio enorme che faremo alle donne, daremo elementi di consapevolezza che attualmente non hanno. È un progetto che porto in scena al Teatro della Toscana, dando voce ad autrici donne.

Il Teatro della Toscana. È stato declassato, non è un più un teatro nazionale. È stata una forma di censura nei tuoi confronti?

Non l'ho detto io, l'hanno scritto loro. Sono stato nominato l'11 gennaio e il 12 sui giornali della destra c'era scritto "vedremo se adesso che hanno nominato Stefano Massini fra alcuni mesi il Ministero gli riconoscerà o non gli riconoscerà ancora la qualifica di teatro nazionale". Poi, siccome siamo in un Paese di ipocriti, quando è successo hanno poi iniziato a dire "Ma non sarà perché Massini".

Come hai reagito a questo declassamento?

Ho reagito continuando a fare il mio lavoro, accogliendo 2500 persone che si sono iscritte alle mie scuole popolari di scrittura in questi mesi, che gli spettacoli a teatro fanno sold out. Sono dati e questo segna la distanza da qualsiasi altra cosa.

Ma parliamo di tv. A Piazza Pulita sei ormai l'uomo dei monologhi, ma non credi che come strumento abbia perso il suo valore, sia ormai inflazionato?

In questi 7-8 anni di permanenza a Piazza Pulita le cose attorno a me sono cambiate molto. Quando ho iniziato non esisteva quasi il tema, ora a fare la differenza nei miei monologhi è la capacità enorme di diffondersi in rete, i veri numeri li faccio il giorno dopo, quando le clip vengono pubblicate da vari giornali, influencer. La televisione è piena di monologhi, ma quello che fa la differenza è quanto quei monologhi sopravvivono alla selezione darwiniana della rete. Poi, c'è da dire, che io utilizzo un linguaggio non da talk, ma teatrale e all'inizio avevo paura di fare Piazza Pulita, poi ho trovato la forza di farlo e trovare un qualcosa che mi differenzia.

E Riserva Indiana, come nasce?

Ho sempre avuto un rapporto molto stretto con la musica, non è un caso che abbia amicizie molto strette con Piero Pelù, Jannacci, con Fiorella Mannoia, tale da portarmi anche sul palco di Sanremo. Il mio rapporto con Celentano, sono stato chiamato da Vasco Rossi insieme a tutte quelle persone che erano dietro allo show tv sul suo concerto in Emilia. Ho scritto anche dei pezzi, collaboro con Luca Barbarossa, a lui ho scritto anche il testo di una canzone. Dopo Sanremo mi proposero di fare Riserva Indiana ed è andato molto bene, doveva fare 10 puntate e ne ha fatte 70, è stata una sorpresa. Sono venuti i grandi come Vecchioni e Morandi, ma anche chi non ti aspettavi di trovare come Fabri Fibra e Achille Lauro.

Drammaturgo, scrittore, autore anche di testi musicali quindi. Cosa rappresenta per te la scrittura, oltre che un lavoro?

La scrittura ho sempre pensato che sia la cosa più forte che esista, è una forma molto alta di altruismo in cui un essere umano non tiene le cose per sé, ma le condivide con altri. Certo, preferisco la scrittura agita, quella che diventa azione, ma trovo che della scrittura dei libri sia gratificante l'incontro con chi ti legge, sentire le loro storie, il loro parere. La sento come una cosa necessaria. Mi piace la scrittura intesa come passaggio di esperienze ad altri esseri umani. Questo per me è molto fondamentale.

Due momenti in cui hai sentito che la tua vita è davvero cambiata. 

L'incontro con Ronconi. È stato fondamentale, è a lui che devo la molla dello scrivere, non avrei mai pensato di scrivere teatro nella mia vita, fu lui a suggerirmi di farlo. Poi, quando nel giugno 2022 ho vinto il Tony Award mi è cambiata la vita. In quel teatro gremito a New York ho avuto una conferma talmente forte al mio lavoro che è stata fondamentale, essenziale per crederci ancora e di più.

Cosa hanno visto gli americani in Stefano Massini?

Sono molto grato agli americani, ma il Tony Award è un premio newyorkese. È vero, sono stato rappresentato in tutte le città più grandi degli Stati Uniti d'America, però so che New York è una città con un'atmosfera diversa, è come fosse tutto il mondo in miniatura, si respira una vita, un modo, dei valori, una cultura completamente diversa rispetto a quella che si respira nell'America profonda. Ce lo dimentichiamo, ma gli Stati Uniti restano un grande Paese di immigrazione. Gli americani hanno visto un italiano che con il proprio modo, con il proprio passo e con la propria sensibilità raccontava una storia profondamente americana come la quella della banca Lehman.

L'insegnamento più vero appreso dal teatro?

Una forza che non immaginavo di avere. Il teatro ti pone di fronte a uno sforzo fisico, è una prova di resistenza, capisci fin dove ti puoi spingere. E anche questo è bello, perché hai davanti una persona che sta facendo una fatica cane davanti ai tuoi occhi ed è un elemento di umanità molto forte, che in un mondo che sta puntando sull'intelligenza artificiale, è ancora una forza.

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