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Michela Giraud: “Non chiamatemi attrice o regista, essere una cazzara mi dà una libertà unica”

Michela Giraud arriva al cinema con Flaminia, ma attenzione a chiamarla attrice o regista: “Io sono e sarò per sempre una comica, una cazzara, rappresenta una libertà unica”. A Fanpage.it racconta anche di cosa le ha insegnato il rapporto con la sorella Cristina, che è nello spettro dell’autismo: “Crescere con una persona che ha una diversità non è solo pesantezza o dolore ma può fare anche molto ridere”.
A cura di Eleonora Di Nonno
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Cos’è che fa ridere a chi di mestiere deve far ridere? Michela Giraud, intervistata da Fanpage.it, risponde: "I dialetti, tutti i dialetti d’Italia". L’11 aprile arriva in sala con Flaminia, il suo primo film da regista (in cui recita come co-protagonista) ma attenzione a definirla in altro modo che non sia "pagliaccio": "Io sarò sempre e per sempre una comica. Non voglio mai prendermi sul serio. Essere una cazzara ti dà una libertà unica". Dopo uno speciale su Netflix, la conduzione di CNN – Comedy Central News e varie incursioni nella televisione, è con questa "leggera profondità" che Giraud porta sul grande schermo la storia di Ludovica, trentenne nello spettro autistico, e di sua sorella Flaminia.

"Ci sono dei punti di contatto tra Ludovica e Cristina, mia sorella nella vita reale. Mi sono ispirata a lei – rivela Michela Giraud – Crescere con una persona con una diversità non significa solo pesantezza o dolore, a volta può fare anche molto ridere. La mia famiglia ha avuto i mezzi per affrontare questa situazione però penso a chi è stato più fragile di me. Questo film è dedicato a loro".

Non hai mai nascosto di essere una persona scaramantica. Quando hai un progetto o un’idea a chi lo racconti?

A mio padre. Però lui si raccomanda sempre di non dire niente a nessuno.

Una mamma biologa, un papà ammiraglio, un nonno alla Corte dei Conti. Dicevi che a casa si respira un clima un po’ serioso. Tu con i tuoi sei ironica o ti trattieni un po’?

In realtà i miei fanno molto ridere, hanno un umorismo un po’ cinico, quasi crudele. Se mi lamento delle cose che mi succedono mi prendono in giro e mi dicono: “Basta, sei una palla”. Una volta ho detto a mia madre di aver avuto un attacco di panico mentre ero in una galleria, lei mi ha rimproverata: “Come è che ti ho fatto così fragile?”.

Che alunna eri a scuola? 

A me piaceva molto studiare ma facevo anche abbastanza caciara. La mia maestra di storia e geografia diceva: “Michela è peggio dei maschi”. Cercavo di mettermi sempre al centro dell’attenzione, mi facevo notare. La mia megalomania è iniziata subito. Ogni settimana chi voleva poteva offrirsi per leggere dei racconti e io lo facevo sempre. Scrivevo racconti su tutto. Immagina questi poveracci dei miei compagni che quando mi alzavo pensavano: “Oh no, l’ha rifatto!” E la maestra, seccata, diceva: “Michela ha scritto un tema”.

Monologhi del passato.

Sì, ante litteram. Chiedo scusa ai miei compagni delle medie e delle elementari per il mio egocentrismo. L’ho fatto diventare un lavoro, voi siete stati le mie cavie.

A te cosa fa ridere? 

Ho due poli: la battuta cristallina della cultura anglosassone e i dialetti. La mia migliore amica Fabiola è originaria di Agropoli e quando parla mi fa troppo ridere. Adoro l’accento in tutte le sue forme. Quando vado negli alimentari rimango zitta perché voglio sentire parlare le persone. Le signore al mercato sono quelle che mi piace di più ascoltare, sono un teatro a cielo aperto.

Di questi tempi tra tensioni geopolitiche, guerra, cambiamento climatico credi che sia un po’ più difficile fare comicità?

Se fai stand up comedy dove c’è il culto del monologo in cui c’è una tesi, un’antitesi e una struttura, sì. È difficile stare al passo con la comicità che cambia. Credo che la gente abbia tanto bisogno di ridere. La comicità si è ripresa i suoi spazi.

Secondo il “paradosso del pagliaccio triste” le persone più divertenti sono quelle che soffrono di più. Per te è così?

Sì, sono pesante, sono un mattone nella vita privata. Cerco di alternare: mattone, sdrammatizzare, mattone, sdrammatizzare… Sono sia una persona alla quale piace ridere, sia una rottura di coglioni. Non penso sia una regola valida per tutti, conosco tanti comici che nella vita privata sono divertenti.

Ti è mai capitato di sentirti così prima di esibirti sul palco? 

Certo, ma devi farlo lo stesso. L’importante è avere le persone a cui tieni, gli amici o il tuo team che ti fanno ridimensionare le cose. Stare male non è sbagliato ma spesso ci dimentichiamo di avere tutto. Leggendo le mie interviste del passato mi sono resa conto di essere stata troppo incline alla lamentela. Lamentarsi sempre è sbagliato. Io l’ho fatto anche in sedi in cui non era opportuno ma ora sto provando a cambiare.

Sei il tipo di persona che chiede aiuto o che preferisce fare tutto da sé? 

Io ho sempre voluto fare tutto da sola. Ho molti problemi con la fiducia. Crescendo impari a delegare e ad affidarti agli altri. Quando diventi un personaggio non sei più solo tu ma sei responsabile anche del brand o del team a cui ti associ. Imparare a pensare al plurale per me è stato un esercizio.

Cosa ti fa perdere fiducia in qualcuno?

È veramente molto facile tradire la mia fiducia. Quando vedo che tu mi stai dando addosso nel momento in cui sono fragile per me sei un infame. Non sopporto la gente che quando sei con la faccia nel fango invece che darti una mano ti spinge ancora più giù.

Citando Oscar Wilde “L’arte è completamente inutile”. Allora che senso ha il tuo videopodcast Gioconde sugli artisti?

Le cose inutili servono. Il faceto è quello che ci fa rilassare. La nostra vita è un elastico, devi comprimere e decomprimere. Io e tutti i miei colleghi ci occupiamo dell’arte del decomprimere, di tutto ciò che è “scemo”. Questo è lo scopo dell’arte. “Gioconde” che faccio con Maria Onori per me è stata la summa delle mie passioni: la storia dell’arte, il teatro e la comicità. Io ho avuto la fortuna di accedere allo studio di questo “faceto” e il mio scopo è portarlo a chi mi ascolta. Avevo il sogno di fare una cosa bella per me ma anche accessibile. Tutta l’arte è mossa dall’amore e dal sesso, sentimenti imperituri e comuni che travalicano i millenni. Voglio che un ragazzo di 16 anni capisca che la passione che ha per l’amore è la stessa che aveva Raffaello che quando vide la Fornarina si eccitò e le fece un quadro.

C’è chi direbbe “belva” ma io ti chiedo: che artista ti senti? 

No, artista no. Io sono un pagliaccio. Io sarò sempre e per sempre una comica. Non ti dirò mai “sono un’attrice” oppure “sono una regista”. Sarò sempre ridicola e felice di essere ridicola, non mi voglio prendere sul serio. Sono principalmente una cazzara, ti dà una libertà unica. Mai darsi un tono. Hai presente Dedalo e Icaro? Più alto voli, peggio è il capitombolo e poi muori. Io non voglio morì, io voglio vivere il più a lungo possibile per rompere il cazzo alla gente.

Michela Giraud e Maria Onori - Instagram credits @michelagiraud
Michela Giraud e Maria Onori – Instagram credits @michelagiraud

Hai fatto la tua prima esperienza da regista. Quale è stata la parte più bella di realizzare un film?

Dirigere gli attori, avere delle persone che si fidano di te e che capiscono ciò che hai in mente trasformandolo poi in pensiero e parola. È stata una delle cose più belle che mi sia mai successa nella vita.

Tra gli attori c’era anche Andrea Purgatori, come è stato lavorare con lui?

È stato un regalo che mi ha fatto Edoardo Purgatori, ho chiesto a lui cosa ne pensasse dell’idea di recitare con suo padre nel film. Mi sono sentita onorata. Andrea Purgatori è stato il mio professore al Master di sceneggiatura e drammaturgia alla Silvio d’Amico e mi aveva stroncato un soggetto. Si trattava di una storia d’amore tra un ragazzo che dormiva sul Ponte Umberto I a Roma e una ragazza di Roma Nord. Un’amore impossibile in cui quando lui cercava di dichiararsi arrivava un venditore di rose indiano a interrompere la magia. Quando lo proposi ad Andrea Purgatori, mi disse: “L’unica cosa che ha senso è l’indiano, il resto è da buttare”. Mi stroncò. All’epoca avevo 26 anni, dieci anni fa. Quando abbiamo lavorato insieme per il film dentro di me pregavo che non si ricordasse della storia dell’indiano. Questa storia precede solo quella in cui presentai a Ugo Chiti un soggetto in cui in un cargo carico di Peppa Pig ripiene di cocaina stavano cercando di spacciare della droga tra sud America e Italia. Chiti mi disse: “Che cosa è questa storia della Peppa?”

Il film “Flaminia” è ambientato a Roma Nord definita “Una Gorgone appariscente e malvagia”. Quanto crescere in un ambiente condiziona la vita di una persona? Per te è stato così?

Quando vieni da un certo contesto passi tutta la vita a smentirlo. Venendo da un ambiente di gente con il palo nel culo sono diventata così “terrena”. Volevo scrollarmi di dosso questa ipocrisia, falsità e perbenismo.

Nel tuo show di Netflix “La verità, lo giuro” c’è un momento in cui racconti di tua sorella Cristina e ci sono molti punti di contatto con Ludovica, una delle protagoniste del tuo nuovo film Flaminia.

Sì, ci sono dei punti di contatto tra Ludovica e Cristina, mia sorella nella vita reale. Mi sono ispirata a mia sorella ma non ho voluto realizzare un personaggio che fosse identico a lei, sarebbe stato impossibile racchiuderla in un’ora e quaranta di film. “Flaminia” è la prosecuzione naturale dello speciale Netflix.

È proprio il personaggio di Ludovica che fa “aprire gli occhi” a Flaminia sull’inconsistenza di certi aspetti della sua vita. Anche tua sorella Cristina ti ha aiutata in questo senso?

Vivere con mia sorella non mi ha fatto aprire gli occhi. Io sono nata con gli occhi aperti grazie a lei. Molte volte nella mia vita non ho voluto vedere quando c’erano delle persone che mi avrebbero fatto male perché una parte di me pensava di meritarsi quella cattiva compagnia.

Dicevi che in passato molto persone non hanno mai capito la particolarità di Cristina e del suo modo diverso di vedere il mondo. Il film è per loro?

No, non è per chi ci prendeva in giro. Io mi curo di chi è stato gentile e comprensivo con noi. Crescere con una persona che ha una diversità non è solo pesantezza o dolore ma può fare anche molto ridere. Si tratta di persone che hanno un punto di vista sulle cose completamente differente. Tutto ciò che è pudore o vergogna viene trattato in un’altra maniera. Non possiamo fare finta che queste situazioni non esistano. Lo Stato deve capire che ci sono loro e le loro famiglie. I genitori non possono essere gli unici caregiver altrimenti noi annulliamo delle persone, annulliamo dei fratelli. Tutti hanno diritto a vivere una vita dignitosa. La mia famiglia, per alcune cose, ha avuto i mezzi. Però penso a chi, come me, ha un fratello con disabilità senza disporre delle disponibilità che ho avuto io. Come fanno? Come fa chi è più fragile di me? Io faccio questo film per loro.

Nel film Ludovica dice “Mia sorella è l’antidoto alla solitudine”. Crescere con Cristina ha significato questo per te?

Sono cresciuta con una persona che nella mia ottica ha sempre avuto bisogno di me. Ora ho realizzato che ha fatto molto più lei per me che io per lei. Cristina ha avuto bisogno della mia protezione ma io ho avuto bisogno di starle sempre addosso. Penso che il legame tra fratelli sia potentissimo, più forte del rapporto con i genitori. Un fratello è un pezzo di te, è la tua carne e il tuo sangue.

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