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Opinioni

Barbie è uno straordinario inno alla parità di genere

Vedere in Barbie una sterile lode al femminismo radicale non è solo una mancata occasione di riflessione, ma può significare una delle seguenti cose: averlo guardato sin dall’inizio coi paraocchi, oppure aver lasciato la sala a 20 minuti dalla fine del film.
A cura di Andrea Parrella
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Bisogna tornare a qualche anno fa per risalire a un film che riuscisse a far discutere come sta accadendo con Barbie. La mastodontica operazione di marketing che ha preceduto l'uscita del film diretto da Greta Gerwig e lo ha reso "il" tema di quest'estate non oscura, né ridimensiona, la grandezza dell'opera. Barbie fa ridere, commuove, prende a schiaffi lo spettatore, ribalta il piano della realtà una, due, tre volte. È un lungometraggio che denuda l'oggetto di commercio più stereotipato della storia e ci racconta la Barbie in sé e la Barbie in me, volendo citare una celebre frase di Gaber riferita a Berlusconi

Un'opera diffusamente definita come un manifesto del femminismo. Niente di più miope agli occhi di chi scrive e al fine di spiegare il perché si avverte chi legge che ci saranno tracce di spoiler.

Barbie racconta di un mondo immaginario, la terra di Barbie appunto, frutto di una proiezione dell'emancipazione femminile che la bambola lanciata sul mercato nel 1959 da Mattel e ideata dalla co-fondatrice Ruth Handler avrebbe voluto incarnare: una Barbie, dunque una donna, che potesse essere qualsiasi cosa e svolgere qualsiasi ruolo nel mondo.

Per estensione, e per eccesso, il mondo di Barbie è un esatto ribaltamento della nostra realtà, raccontato in chiave paradossale. Barbieland le Barbie sono centrali, svolgono qualsiasi ruolo apicale e posizione di rilievo, sono il sole di questo universo parallelo in cui i Ken (gli uomini) non sono che un riflesso, un satellite, esseri che vivono in funzione delle Barbie e della loro attenzione. La trama porta tuttavia a una rottura della parete che divide il mondo di Barbie da quello reale e questo consente sia a Barbie (Margot Robbie) di capire che nessuno di quei valori che crede di incarnare sia percepito come tale nel mondo reale, ma permette soprattutto a Ken di intravedere una realtà in cui l'uomo non è un surrogato di Barbie, in cui le dinamiche sono esattamente opposte.

Così mentre Barbie è alle prese con una crisi di coscienza, Ken torna in "patria" per restaurare Barbie land sulla base dei dettami di quel patriarcato scoperto nel mondo reale. Qui tenta di instaurare un nuovo sistema di valori che ripaghi i Ken, dunque l'uomo, della subordinazione che da sempre devono sopportare nel mondo di Barbie. Vi ricorda qualcosa? L'onda maschilista niente pare essere nient'altro che una rappresentazione speculare – e naturalmente smodata come i toni del film – di quella femminista, una reazione scomposta alla subalternità eterna alle Barbie cui i Ken sembravano destinati.

È una visione critica di questo tentato golpe, rappresentato in una chiave iperbolica e derisoria, ma allo stesso tempo comprensiva. Quando Barbie e le altre Barbie riescono a sedare il colpo di stato patriarcale, il personaggio di Ken interpretato da un notevole Ryan Gosling confessa a Barbie la frustrazione che lo ha indotto a quella ribellione, di cui per altro ha compreso l'inutilità mentre la metteva in atto. E, udite udite, Barbie si scusa con lui, riconosce di averlo dato per scontato, di averlo considerato come emanazione di sé.

Il messaggio finale di Barbie non è un inno a una riconquista femminista del mondo e nemmeno un invito a schiacciare la controparte maschile per riprendersi il maltolto, bensì una parabola che esalta l'idea di equità, di parità, il desiderio di riappropriazione dell'identità da parte del singolo al di là della propria connotazione di genere. Non vivere in funzione di qualcuno, di un ruolo che la società impone, ma solo in funzione di ciò che si è: Barbie, Ken, o qualsiasi altra cosa. In definitiva, vedere in questo film una sterile lode al femminismo racicale non è solo un'occasione di riflessione perduta, ma può significare una delle seguenti cose: averlo guardato sin dall'inizio coi paraocchi, oppure aver lasciato la sala a 20 minuti dalla fine.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare la realtà che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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