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Riconoscimento della Palestina: Abu Mazen presenterà la mozione ai 15 del Consiglio di Sicurezza

E’ atterrato ieri a New York Abu Mazen, Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese per chiedere venerdì prossimo il riconoscimento ufficiale del suo popolo palestinese. Un’iniziativa destinata a fallire? L’ipotesi “due popoli, due Stati” ostacolata dalla problematica “co-abitazione” e dai lunghi negoziati.
A cura di Simona Saviano
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Abu Mazen a New York il 19 settembre 2011 per discutere dell'iniziativa per il riconoscimento della Palestina

Il Presidente Abu Mazen è giunto ieri nel Palazzo di Vetro a New York per discutere della sua iniziativa per il riconoscimento dello Stato Palestinese. La proposta ha trovato il sostegno del Segretario Generale dell'ONU Ban Ki Moon, che, favorevole alla soluzione dei "due Stati", spera che i risultati siano però frutto di una negoziazione tra le due parti e la comunità internazionale. Nella giornata di ieri Ban Ki Moon ha confermato al Presidente Abu Mazen che il Quartetto, composto da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e ONU, sta compiendo degli sforzi ammirevoli in quest'ottica.

In realtà il cosiddetto "Quartetto" è da tempo impegnato per "evitare il collasso" degli accordi di Oslo del 1993, siglati dal capo di Stato israeliano dell'epoca Yitzhak Rabin e dal compianto leader palestinese Yasser Arafat con l'appoggio dell'allora Presidente americano Bill Clinton. Sono trascorsi 18 anni dopo quello che sembrava essere un accordo "storico" (i partecipanti Yasser Arafat, Shimon Peres e Yitzhak Rabin furono insigniti anche del Premio Nobel per la Pace nel 1994 in virtù degli "sforzi per creare la pace in Medio Oriente"), nel quale le due parti si impegnarono, attraverso negoziati, a raggiungere l’obiettivo dei due popoli e due Stati, ma nulla sembra cambiato. In vista della sessione dei lavori delle Nazioni Unite prevista per venerdì, durante il quale Abu Mazen chiederà il riconoscimento dello Stato palestinese in base ai confini del 1967, è giunto l'ennesimo messaggio del primo ministro israeliano Netanyahu, che chiede un incontro ad Abu Mazen a New York, al fine di "riprendere i negoziati".

Giunta ieri la delegazione palestinese all'ONU

Venerdì 23 settembre il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese chiederà ufficialmente il riconoscimento dello Stato Palestinese

Abu Mazen venerdì dinnanzi al Consiglio di Sicurezza

“ Vogliamo una decisione del Consiglio di sicurezza. Dopo, tutte le opzioni sono aperte ”
Abu Mazen, leader ANP
Se fino a pochi giorni fa non si aveva la certezza della strada da intraprendere per richiedere ufficialmente il riconoscimento dello Stato palestinese, Abu Mazen ha confermato di voler raggiungere questo risultato (con il quale la Palestina passerebbe da paese “osservatore permanente” a “Stato non membro”, come è ad esempio oggi il Vaticano) ponendo la sua richiesta ai membri del Consiglio di Sicurezza. A tal fine, il popolo palestinese dovrà ottenere il voto favorevole di almeno 9 dei 15 Stati membri. Saranno quindi chiamati ad esprimersi, oltre i 5 membri permanenti Cina, Francia, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti (i quali hanno la possibilità di porre il “diritto di veto” cioè di votare contro tale candidatura e bloccare l'iter definitivamente) i paesi che oggi siedono al Consiglio di Sicurezza: Bosnia Erzegovina, Germania, Portogallo, Brasile, India, Sud Africa, Colombia, Libano, Gabon e Nigeria.

E se c'è chi giura che gli americani porranno il diritto di veto, bloccando così sul nascere le richieste palestinesi, sono giunte delle dichiarazioni israeliane (attendibili visto che giungono dal segretario del governo israeliano Tzvi Hauser) le quali hanno affermato che i palestinesi non avranno la maggioranza nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite visto che Washington sta convincendo gli altri membri del Consiglio a non approvare la proposta presentata dall’ANP.

Abu Mazen e il segretario generale dell'ONU

L'indiscrezione israeliana rispecchia una logica tipica della diplomazia delle relazioni internazionali: nonostante i buoni propositi di Obama espressi a maggio (e un Nobel per la pace ricevuto nel 2009 ancor prima di compiere alcunché), gli americani potrebbero evitare di ricorrere al diritto di veto proprio per non perdere la propria credibilità; mentre un eventuale "no" alla richiesta palestinese da parte di 7 paesi del Security Council sarebbe sufficiente per bloccare la questione sul nascere senza esporre gli Stati Uniti alle ostilità della maggioranza dell’Assemblea Generale (attualmente 140 paesi su 193 sosterrebbero il tentativo di Abu Mazen) ed ad una perdita totale di credibilità come "fautori della pace internazionale".

C'è stata una forte pressione sul leader palestinese affinché rinunciasse alla sua iniziativa, Abu Mazen ha ribadito che la volontà di presentarsi dinnanzi ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza non è in contrasto con l'idea dei negoziati:

Sono pronto ad incontrare funzionari israeliani in ogni momento. Ma non servirà se non ci sarà nulla di tangibile. L'amministrazione americana ha esaurito tutti gli sforzi per portare Netanyahu al tavolo del negoziato. Non sono riusciti a convincerli di cessare l'attività negli insediamenti

Un ritorno ai confini stabiliti nel 1967?

Che sia Stato membro oppure Stato non membro poco conta, l'importanza che soggiace alla richiesta dei palestinesi va sottolineata in due punti: nella stessa definizione di Stato (con la quale uscirebbe innanzitutto dall'incertezza declaratoria che vive oggi in quanto "autorità nazionale") e sulla richiesta del riconoscere di uno Stato Palestinese sulla base dei confini del 1967, includendo così anche la Cisgiordania (sebbene occupata dai coloni israeliani), la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. La storia del conflitto israelo-palestinese è un lungo percorso di tensioni, dovuto all'occupazione del suolo palestinese da parte dei coloni israeliani, in seguito alla dichiarazione di Balfour del 1917, con la quale gli inglesi auspicarono alla creazione di un "focolare ebraico in Palestina".

Disegno di Oren Medicks

L'anno cruciale del 1967 riporta alla Guerra dei 6 giorni, conflitto fulmineo che vide contrapposti Israele e una coalizione di stati arabi (Egitto, Siria e Giordania) e che si risolse in una rapida e totale vittoria degli israeliani, i quali sottrassero la Penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. Nel disegno di Oren Medicks è mostrata chiaramente l'occupazione da parte dei coloni israeliani nel corso degli anni. Abu Mazen oggi chiede un ritorno non alla situazione (utopica) del 1946, ma a quella del 1967, sostenuto, almeno inizialmente, dallo stesso Barack Obama, che solo fino a pochi mesi fa rimproverava gli israeliani per la crescita esponenziale delle colonie. Oggi gli USA fanno dietrofront, affermando che

uno Stato simile si può raggiungere solo con i negoziati; quest'azione unilaterale palestinese non aiuta le parti ad intraprendere le trattative dirette, quindi è controproducente

Israele non è chiaramente disposta a riconoscere ai palestinesi uno Stato dai confini antecedenti il giugno 1967; a sua volta l'Autorità Nazionale Palestinese non vuole riconoscere Israele come "Stato ebraico" e non vi sono accordi né sullo status di Gerusalemme né sul "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi. Il Quartetto sta lavorando per concordare con l'ANP una risoluzione accettabile anche da Israele (che quindi non faccia riferimento ai confini), dando vita quindi ad una soluzione che conferisca all'Anp "attributi di Stato senza sovranità": Abu Mazen ha risposto ieri che tale soluzione è inaccettabile, anche perché ormai è stata depositata la richiesta al Segretario Ban Ki Moon.

Il contesto internazionale

L'iniziativa palestinese, come sottolineato da Grazia Careccia (esperta presso l'ONG Al-Haq di Ramallah) evidenzierà ulteriormente le contraddizioni interne della comunità internazionale: l'Unione Europea si divide tra il desiderio di rafforzare la propria influenza a livello regionale e il sostegno del progetto di creazione dello Stato palestinese (l'Italia si divide tra un "adeguamento" della propria politica estera a quella americana e un appoggio storico alla causa palestinese; non ultimo il riconoscimento di un’ambasciata palestinese nel nostro paese nel maggio scorso). Tuttavia lUE è ostaggio di divisioni interne e di una politica estera comune fallimentare; particolare è la posizione della Germania: a giugno si diceva contro tale proposta e una settimana fa Angela Merkel affermava di non voler rivelare le intenzioni di voto.

Il rifiuto degli Stati Uniti dell'iniziativa palestinese con ogni probabilità indebolirà ulteriormente la sua posizione in Medio Oriente; le parole pronunciate a maggio nella capitale egiziana dal Presidente Obama: "l'America non ignorerà le legittime aspirazioni dei Palestinesi ad un proprio Stato" risultano l'ennesima conferma di un processo di pace difficile e a tratti solo declaratorio.

Indifferente alle risoluzioni ONU che ha spesso non rispettato, Israele vive oggi un momento di isolamento politico regionale. In Egitto è esplosa la protesta per l'uccisione da parte degli israeliani di 5 guardie di frontiera egiziane, in seguito a violenti scontri del paese l'ambasciatore israeliano ha lasciato il Paese. Anche i turchi hanno sospeso le relazioni diplomatiche con Israele: dopo il rifiuto del governo di Netanyahu di scusarsi per l'uccisione di nove cittadini turchi da parte da un commando israeliano durante l'abbordaggio della Freedom Flotilla che sfidava il blocco israeliano nella Striscia di Gaza, nelle ultime settimane tra i due paesi la tensione è cresciuta tanto che l'ambasciatore israeliano è stato cacciato da Ankara (la Turchia si sta affermando come una potenza regionale importante: il primo ministro turco Erdogan ha iniziato un lavoro di avvicinamento con gli Stati del Medio Oriente nati/trasformati dalla rivolte della Primavera Araba ed è stato salutato dall'Egitto come il "Nuovo Eroe Arabo"). Critico anche il Re Abdallah di Giordania, che intervistato dal Wall Street Journal ha rimproverato il governo israeliano di "nascondere la testa sotto la sabbia".

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