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Conflitto Israelo-Palestinese

“La guerra tra Israele e Iran la vuole solo Netanyahu, Biden deve fermarlo”: l’analisi degli esperti

Gli analisti iraniani e israeliani a Fanpage.it dopo l’attacco di Teheran di sabato notte: “Sia Israele che l’Iran possono ritenersi soddisfatti e non hanno le forze per farsi una vera guerra. Un allargamento del conflitto è improbabile. Ma conviene al leader dello Stato ebraico, per motivi personali. Gli Usa devono esser più chiari e fermare Netanyahu”.
A cura di Riccardo Amati
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Un’ulteriore escalation sarà probabilmente evitata, non tanto perché lo chiede il G7 ma perché sia Israele che l’Iran hanno raggiunto almeno alcuni dei loro scopi, in seguito all’attacco dei missili e dei droni di Teheran sullo Stato ebraico. Tutto resta nelle mani di Bibi Netanyahu, che l’escalation l’ha cercata ed è l’unico a cui convenga. E nelle mani di Joe Biden. Che per motivi di politica interna preferisce redarguire il premier israeliano privatamente astenendosi sia da una condanna pubblica che da un veto alle sue azioni.

"Un’azione simbolica"

"Non credo che vedremo il conflitto continuare ad estendersi", dice a Fanpage.it Vali Nasr, docente di Studi mediorientali e Affari internazionali alla Johns Hopkins University. "Non significa che tutto sia risolto, ma è difficile che ci sia una escalation, almeno nell’immediato". Nasr è iraniano, è stato il principale advisor dell’ambasciatore Richard Holbrooke ai tempi di Obama. Ha conoscenze e fonti non banali su cui costruire le sue analisi.

"Teheran, e i suoi proxy in Libano (ovvero Hezbollah, ndr) e in Yemen (i ribelli Houthi, ndr) hanno lanciato centinaia di missili su Israele, e avrebbero potuto lanciarne molti di più. Non era mai successo. Il messaggio è chiaro: ogni escalation alzerebbe la soglia del rischio per il nemico".  L’azione "è stata simbolica e volutamente limitata". Nasr ritiene che tale natura dell’attacco iraniano sia stata suggerita a Teheran nel corso di incontri diplomatici con Paesi vicini ad Israele. E forse dei suggerimenti non c’era nemmeno bisogno: "L’Iran non vuole esser coinvolto in una guerra, tantomeno in una guerra per Gaza", sostiene l’accademico.

La strage evitata

Resta il fatto che se non fosse stato per l’efficienza della difesa aerea integrata di Israele e dei suoi alleati Usa, Gran Bretagna e Giordania, un bel po’ di cittadini israeliani ci avrebbero lasciato la pelle. In particolare, militari: "Sono stati presi di mira basi e aeroporti", riferisce a Fanpage.it da Tel Aviv l’analista militare David Gendelman. "Se fossero stati centrati, ci sarebbero state grosse perdite di uomini e mezzi". Ryan Costello, direttore della Ong indipendente National Iranian American Council (Niac) ed esperto della politica del Paese sciita, definisce l’attacco "telefonato": "Teheran sapeva bene che gran parte dei suoi droni e dei suoi missili sarebbero stati abbattuti".

Ma certo "è stata una notte poco tranquilla per Israele e i suoi alleati", aggiunge Costello. "Grazie alla prevedibilità dell’offensiva, si è avuto buon gioco ad annullarne o quasi gli effetti. Ma si è anche compreso che in caso di risposta israeliana sarebbero pronti barrage immediati e più intensi". Intanto, "l’Iran ha alterato lo status quo, secondo cui Israele godeva dell’impunità quando colpiva l’Iran, in particolare in Siria. Ora si è visto che l’Iran può rispondere e che ha la volontà di farlo", sottolinea l’esperto a Fanpage.it.

Cosa ottiene l’Iran

L’Iran, con un attacco mai visto prima, "ha tracciato una nuova linea rossa, ha ripristinato la deterrenza, salvato la faccia e probabilmente evitato una escalation", riassume il politologo iraniano Trita Parsi, vicepresidente esecutivo del Quincy Institute, think tank schierato per una politica estera Usa "che rispetti i diritti e la dignità di tutti". Inoltre, lo Stato sciita ha potuto imparare un sacco di cose su come funziona la difesa di Israele nel caso di un massiccio attacco missilistico. Nonostante i proiettili di Teheran siano stati resi quasi inoffensivi dallo Iron Dome —  il guardiano dei cieli israeliani — e dall’intervento alleato, l’operazione "per ora può anche esser anche considerata un successo dell’Iran", sostiene Parsi. A meno che Israele non decida una forte contro rappresaglia, come dice di voler fare. Smentendosi però nell’immediato, visto che ha subito riaperto il suo spazio aereo.

Il "successo" di Israele

Certo Netanyahu può gridare al successo con maggior forza del leader iraniano Khamenei. Per l’indubbia vittoria militare della sua difesa anti-aerea. Ma anche perché l’attenzione del mondo è stata distratta e non è più incentrata sulla carneficina in atto a Gaza. E soprattutto perché il leader israeliano è meno isolato rispetto a prima di aver subito l’attacco.

"Israele nei media e nelle cancellerie occidentali è tornato a esser trattato come vittima — spiega Parsi a Fanpage.it —  e ciò potrebbe avere pessime ripercussioni, almeno per qualche tempo, sulla causa palestinese, che Israele stesso ha reso di nuovo popolarissima con quel che ha fatto a Gaza". La cosa vale anche per la narrativa di Washington, che era diventata parecchio negativa su Netanyahu: "Ora i membri del Congresso sfilano l’uno dopo l’altro negli studi televisivi a dire che si devono fornire armi a Israele e che l’alleato mediorientale va sostenuto in ogni modo, Una bella vittoria, se non altro tattica, per il premier israeliano".

L'escalation di Netanyahu

Se è probabile che Israele eviterà clamorose operazioni militari contro l’Iran, è altrettanto probabile che qualche risposta ci sarà, concordano gli analisti. "Ci sono molte possibilità", avverte l’analista militare Gendelman. "Da attacchi diretti su installazioni iraniane o contro Hezbollah a operazioni segrete, fino a offensive informatiche. Il governo israeliano ne sta discutendo e decidendo i tempi. Gli ostacoli più che militari sono politici: gli Usa non vogliono una contro-rappresaglia". Netanyahu "ha tutto l’interesse a tenere alta la tensione", ritiene Vali Nars. Il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco il primo aprile scorso "è certamente parte di questo interesse da parte del premier israeliano". D’accordo che l’Iran è una minaccia per Israele e trama per porre fine alla sua stessa esistenza, "ma il timing e l’obiettivo dell’azione del primo aprile sono la chiave per capire cosa vuole Netanyahu".

"Nel momento in cui la guerra a Gaza è in stallo, le relazioni con l’alleato americano sono in crisi e la sua immagine nel mondo è sempre più compromessa — continua il professor Nars —, il premier e il suo gabinetto hanno deciso di colpire proprio l’interno di un’ambasciata. Senza che l’Iran avesse fatto alcuna azione diretta contro Israele. Sapevano benissimo che ci sarebbe stata una rappresaglia. È stato un passo calcolato". E la rappresaglia è puntualmente arrivata, distogliendo l’attenzione da Gaza e facendo tornare Israele una vittima. Non c’era alcuna possibile alternativa diplomatica. Il gioco di Bibi è riuscito.

La guerra che non si può fare

L’Iran non ha le risorse necessarie per una guerra vera e propria contro Israele e Israele non può fare una guerra contro l’Iran se non insieme ai suoi alleati, che non la vogliono. Il problema sembrerebbe quindi risolto. Ma la razionalità e l’interesse generale sembrano i meno indispensabili tra gli ingredienti del pasticcio mediorientale. "L’Iran ha i suoi proxy ma non ha truppe e mezzi corazzati sufficienti per un conflitto in grande stile, e neanche Israele li ha, se deve fare a meno delle truppe americane", nota Vali Nars. "I due nemici potrebbero solo scambiarsi bombardamenti e raid aerei, facendosi danni reciproci notevoli. Vincerebbe chi resiste di più ai danni".

Sarebbe un conflitto che non conviene a nessuno. Meno che mai all’Iran, vista l’efficacia dell'antiaerea nemica. Ma Teheran ha appena dimostrato la sua volontà di reazione in casi estremi. Ha stabilito un limite. E se, per esempio, Israele bombardasse i suoi impianti nucleari, si scatenerebbe il peggio. "Un attacco a un impianto nucleare potrebbe anche essere una possibilità, se il presidente Biden non diventerà più chiaro e fermo nei confronti di Netanyahu", afferma Trita Parsi.

Un "assegno in bianco" per Bibi

"L’assegno in bianco concesso da Biden a Netanyahu continua a rivelarsi molto pericoloso", è il commento di Ryan Costello. "Il premier ha creduto di aver luce verde per il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco senza nemmeno dover avvertire gli Usa, e questo ha provocato una situazione ad alto rischio, potenzialmente in grado di coinvolgere l’America in una guerra. Ora Biden dice a Netanyahu di non reagire alla rappresaglia di Teheran. Bisogna vedere se stavolta sarà ascoltato".

Ma Netanyahu vorrebbe davvero una guerra infinita? "Non credo che guardi molto al di là del suo proprio interesse – risponde Costello – E il suo interesse è di mantenere attivo il conflitto cosicché non si vada alle elezioni e non venga estromesso dall’incarico. Espandere la guerra all’Iran significherebbe di certo non dover pensare alle elezioni per un bel po’". Netanyahu "vuole allargare e prolungare la guerra", condivide Parsi. "Perché un minuto dopo la guerra finirebbe anche la sua carriera politica, e con ogni probabilità per lui si aprirebbero le porte della galera (il premier è stato rinviato a giudizio per frode, corruzione e abuso d’ufficio. Rischia dieci anni di prigione, ndr)".

Le dittature ringraziano

"Il problema è che Biden ha sempre rimproverato Netanyahu privatamente anziché in pubblico, e questo ha aiutato il leader israeliano a non dargli retta e a non temer conseguenze", sottolinea Vali Nars. "La politica del presidente Usa è sempre stata quella di evitare ogni diatriba pubblica con gli israeliani. Crede che questo gli porti voti. Ma è una politica disastrosa, in realtà. Se Netanyahu continuasse a ‘disobbedire’, gli Stati Uniti sarebbero trascinati in una guerra. E Biden perderebbe le elezioni. Perché l’ultima cosa che vogliono gli americani è una nuova guerra in Medio Oriente".

La crisi e la violenza in atto hanno radici antiche e molteplici responsabili. L’orribile dittatura degli ayatollah e altre di Paesi che si contrappongono all’Occidente liberale sono tra questi. Ma  l’escalation o il disinnesco dell’attuale situazione esplosiva dipendono in buona parte da due esponenti, più o meno degni, dell’Occidente liberale: un premier che vuole evitare la galera e un presidente in campagna elettorale. Le dittature non hanno di questi problemi. Semmai, con la escalation di Netanyahu e la titubanza Usa, hanno adesso cartucce in più per la propaganda. E per tentar di giustificare i loro orrori.

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