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Perché l’accordo “storico” della COP28 rischia anche di essere controproducente

Accogliere come epocale il contentino che petrostati e lobbisti hanno concesso a Dubai può essere comprensibile, ma è anche rischioso, perché di fatto va a legittimare un modo di procedere e una velocità di passo del tutto inappropriati alla sfida che stiamo affrontando.
A cura di Fabio Deotto
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A volte basta poco tempo, una manciata di ore, perché quello tutti descrivevano come un fallimento assuma le tinte di un trionfo. Mi riferisco naturalmente alla ventottesima edizione della Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite, anche nota come COP28, per i profani: l’unico vero tavolo di negoziati internazionale che avrebbe il potere di arginare la crisi climatica.

Dopo due settimane di frustranti negoziati, ostruiti da un numero record di rappresentanti dell’industria fossile (2456), e da un numero record di scandali (non ultimo le dichiarazioni negazioniste del presidente petroliere), dopo che sul tavolo è atterrata una bozza di accordo che i delegati degli stati insulari hanno
bollato come un “certificato di morte”, finalmente nella mattinata di mercoledì 13 dicembre il testo finale è stato approvato in un trionfo di applausi e strette di mano.

La COP28, che fino a un giorno prima era destinata a essere ricordata come la più scandalosa e controproducente di sempre, d’un tratto è entrata nella storia come un punto di svolta. O almeno così è stata annunciata da Sultan Al Jaber (il presidente petroliere, quello delle dichiarazioni negazioniste), da alcuni delegati delle nazioni più ricche e inquinanti, nonché da molti giornalisti arrivati esausti dopo centinaia di ore di trattative.

Ma cosa, esattamente, renderebbe storico questo accordo? Sostanzialmente, il fatto che per la prima volta si espliciti il ruolo dei combustibili fossili nell’emergenza che stiamo vivendo e si indichi la direzione da percorrere per allontanarsene. Nello specifico si parla di “favorire un percorso di allontanamento dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l'azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto di emissioni entro il 2050, in linea con quanto prescrive la scienza.”

Se vi sembra poco non è perché non avete colto le sfumature necessarie a comprenderne la portata epocale, è perché è davvero un risultato insufficiente.

Le parole sono importanti, alcune più di altre

Al momento dell’approvazione del documento finale, non tutti i delegati delle varie nazioni erano presenti. I rappresentanti dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari, un’organizzazione che rappresenta 39 nazioni tra le più esposte alle ricadute della crisi climatica, si erano ritirati a conferire su come intervenire al dibattito che pensavano sarebbe seguito alla presentazione dell’accordo. Si tratta probabilmente di una svista, ma è indicativa della crepa che esiste tra le nazioni più vulnerabili (e meno responsabili) e quelle più ricche (e maggiormente responsabili).

Non è un caso se, durante il torneo di pacche sulle spalle che è seguito alla chiusura dei lavori, le nazioni del Sud del mondo masticassero amaro nelle retrovie. Perché certo, il fatto che per la prima volta un documento COP parli di combustibili fossili e apra la strada a un loro abbandono è importante, ma nella condizione in cui siamo, più che una vittoria, è un punto di partenza trovato in drammatico ritardo. “Questo risultato è una delusione” ha dichiarato senza mezzi termini il delegato samoano Anne Rasmussen, “Abbiamo fatto un progresso incrementale rispetto al business as usual, quando ciò di cui avevamo bisogno era un cambiamento esponenziale.”

La locuzione “transitioning away”, comparsa nel testo finale, è molto più debole e annacquata rispetto a “phasing out” (eliminazione graduale), su cui hanno insistito molti dei delegati a Dubai, e persino di “phasing down” (riduzione graduale), su cui si erano concentrati gli sforzi nella scorsa COP27. Sono solo parole, dirà qualcuno: ma ai tavoli internazionali le parole sono importanti, e del resto un accordo non vincolante di questo tipo non offre molto altro. Pensiamo all’Accordo di Parigi del 2015, uno dei documenti più dirimenti usciti da una COP: per quanto pieno di lacune e non vincolante, è effettivamente servito come bussola per decine di provvedimenti e trasformazioni che altrimenti non avrebbero avuto terreno su cui poggiare (pensiamo anche solo a quanto sia stato importante nelle cause climatiche).

Il documento approvato a Dubai avrà sicuramente la sua utilità, e il fatto che per la prima volta i combustibili fossili vengano citati come causa primaria del riscaldamento globale produrrà senz’altro degli smottamenti, ma difficilmente saranno sufficienti a metterci sul binario giusto per scongiurare le
conseguenze più tragiche dell’emergenza climatica.

Una contrattazione al ribasso

Sultan Al Jaber è un uomo scaltro, e chi in queste settimane lo ha descritto come un petroliere incapace di cogliere l’importanza della questione ha preso un abbaglio: il CEO di Adnoc (una delle più potenti e aggressive compagnie petrolifere al mondo) ha accettato l’incarico di presidente di COP28 con la lucidità
del calcolatore trasversale, ha esordito presentando come trionfo un fondo Loss & Damage striminzito e del tutto insufficiente, ha cercato di farsi passare da responsabile nocchiere di un veliero che rischiava di affondare, e poi all’ultimo momento ha sbattuto sul tavolo una bozza di accordo che era di fatto uno
spudorato salvagente per il settore fossile. Prima che un politico Al Jaber è un commerciante, sapeva che COP28 sarebbe finita con una trattativa, e ha puntato il più in basso possibile per ottenere esattamente quello che ha ottenuto, ossia l’esclusione dal testo di ogni riferimento esplicito alla riduzione della produzione e del consumo di combustibili fossili.

Viviamo nel mezzo di un’emergenza climatica sempre più devastante e tangibile, eppure stiamo esultando per un documento che rinuncia ad auspicare un picco delle emissioni entro il 2025 e addirittura a prescrivere l’abbandono del carbone, che lascia aperta la strada al nucleare (e al gas fossile) come energia di transizione, e addirittura cita le tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio (uno strumento ad oggi praticamente inutilizzabile) tra le soluzioni su cui investire. Se non è una vittoria dell’industria fossile, è sicuramente il pareggio che salva dalla retrocessione.

Come dirottare una COP

Quello che quest'ultima conferenza delle parti ha reso evidente è che la cosa peggiore che possa succedere a una COP non è di produrre un documento poco ambizioso, ma che il tavolo possa essere dirottato da chi ha interesse a contrastare l'azione climatica e a tutelare gli interessi del settore fossile.

A Dubai quest’anno c’erano 2456 lobbisti dell’industria fossile, una cifra enorme, considerando che l’anno scorso non erano più di 500, e che i delegati delle 10 nazioni più esposte alla crisi climatica a Dubai erano 1509. Se si fosse trovato un modo, come alcuni auspicano, di estromettere i rappresentanti dell’industria fossile da una Conferenza delle Parti, avremmo avuto un risultato diverso? Difficile a dirsi, dal momento che, per come il nostro sistema economico e produttivo è incardinato ai combustibili fossili, spesso gli interessi di aziende e nazioni vanno a braccetto.

Ma è chiaro che la retorica fossilista ha pesantemente inquinato i discorsi e penalizzato le trattative. I lobbisti del fossile non puntavano a far naufragare la COP, al contrario puntavano a prenderne il timone e a portare la nave nel porto che a loro facesse più comodo. Per questo occorre andare cauti con i festeggiamenti.

Se davvero vogliamo che le COP rappresentino dei punti di svolta nella lotta alla crisi climatica, e quindi nella costruzione di un mondo più equo e vivibile, dopo Dubai è chiaro che necessitino di essere riformate, o quantomeno protette da chi ha interesse a dirottarle.

Il fatto che la prossima COP si terrà in un altro petrostato non democratico, l’Azerbaijan, lascia ben poco margine all’ottimismo. O forse, proprio perché le condizioni sono così platealmente avverse all’azione climatica, COP29 potrà fungere da banco di prova per riformare uno strumento che ha impiegato 30 anni a riconoscere il ruolo dei combustibili fossili.

La direzione è giusta, il percorso no

Alla chiusura dei lavori, il capo delegazione delle Isole Marshall, John Silk, ha paragonato il documento di COP28 come “una canoa dallo scafo debole e crivellato di buchi” aggiungendo che “dobbiamo calarla in acqua perché non abbiamo altra scelta.”

Una dichiarazione che è stata più volte ripresa come esempio di strenua caparbietà, quando in realtà è una frase che suggerisce più rassegnazione che speranza. Se tutto quello che abbiamo è una canoa precaria, è per via delle pressioni di chi ha interesse a far sì che lo status quo cambi il meno possibile, a costo di lasciare affondare le nazioni insulari, a costo di lasciare che centinaia di migliaia di persone muoiano per colpa della crisi climatica, a costo di lasciare che centinaia di milioni di persone non possano più vivere nei loro territori, a costo di lasciare che i limiti planetari vengano superati e che la biodiversità collassi, a costo di dissipare l’enorme ricchezza naturale e biologica che questo mondo ha impiegato milioni di anni a produrre. Per evitare scenari di questo tipo abbiamo bisogno di una transizione molto più rapida, molto più radicale e decisa. Non lo dico io, è quello che “prescrive la scienza”, per parafrasare il documento sventolato da un sorridente Al Jaber.

Accogliere come epocale il contentino che petrostati e lobbisti hanno concesso a Dubai può essere comprensibile, ma è anche rischioso, perché di fatto va a legittimare un modo di procedere e una velocità di passo del tutto inappropriati alla sfida che stiamo affrontando. Un “percorso di allontanamento” dai combustibili fossili, per quanto possa consolarci in un’epoca di mulini a vento inattaccabili, è un percorso che ci porterà a superare i 2 gradi, e probabilmente anche i 2,5, e i 3. Perciò bene, consideriamo pure questa COP un passo nella giusta direzione, sfruttiamo il più possibile questa canoa, ma teniamo sempre bene a mente che quella canoa è destinata ad affondare, e che il tragitto da percorrere è un altro.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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