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Perché il video della donna che lascia un neonato in ospedale ad Aprilia non doveva essere diffuso

Se non fossimo in un periodo di propaganda martellante sulla necessità di diventare madri, si potrebbe dire che si tratta dell’ennesimo caso di violazione delle regole deontologiche da parte dei giornalisti. Ma il dubbio è che il video della donna che lascia un neonato in ospedale ad Aprilia, diffuso in primis dalla Rai, non serva altro che a rafforzare l’unica visione della maternità ammissibile.
A cura di Jennifer Guerra
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In Italia c’è una legge che non viene mai rispettata. Certo, non è l’unica a subire questo destino, eppure si tratta di una legge di facilissima applicazione, che non richiede finanziamenti o procedure complicate. È stata approvata nel 1997 e consente a una donna di partorire in anonimato. Negli ultimi anni, sono sempre meno le persone a usufruire di questo servizio: si è passati dai 642 neonati del 2007 ai 173 del 2021. Il problema non riguarda tanto la legge in sé, ma il principio che l’ha ispirata, che ha radici antichissime nella storia: le donne che non possono o non desiderano prendersi cura di un bambino lo possono affidare, senza che nessuno lo venga a sapere, alle cure della collettività. È una forma di tutela reciproca, per la madre e per il bambino.

Sabato 27 gennaio una donna ha lasciato al pronto soccorso dell’ospedale di Aprilia un bambino di sei mesi. Stando alle ricostruzioni del personale sanitario, ha detto di andare in bagno e ha lasciato il bambino nella corsia del triage, dove è stato trovato da un’infermiera.

Il problema è che questa volta non è bastata la notizia: giornali e televisioni, prima di tutti la Rai, hanno trasmesso il video delle telecamere di sicurezza dell’ospedale che hanno ripreso la scena. Una gravissima violazione della privacy, che non solo non aggiunge niente di nuovo alla notizia, ma che viola la privacy della donna e del bambino, di cui è già stato divulgato il nome datogli dai medici. Non sappiamo nulla di questa donna e dei motivi che l’hanno portata a compiere questo gesto, ma anche stavolta sono state diffuse informazioni che non dovevano diventare di pubblico dominio, proprio come successe lo scorso anno con la persona che affidò il figlio alla culla termica della clinica Mangiagalli di Milano. In poche ore, fu diffuso il contenuto della lettera, insieme a vari dettagli che potevano identificare la donna o il bambino e si moltiplicarono gli appelli (compreso uno fatto da Ezio Greggio) affinché ci ripensasse.

Nel caso di Aprilia, non c’era una culla termica a cui affidare il bambino, ma la donna ha comunque deciso di portarlo in un luogo sicuro, dove qualcuno poteva prendersene cura immediatamente. La caccia alla donna che si è scatenata, con tanto di video diffuso dal telegiornale, non servirà certo a farle cambiare idea, né a diffondere la consapevolezza di alternative ancora più sicure come il parto in anonimato, ma servirà solo ad aumentare la sensazione di accerchiamento e stigmatizzazione, oltre che aumentare il rischio che, per non incorrere in una possibile identificazione, sempre più donne lascino i neonati in luoghi come i cassonetti, come successo due settimane fa in provincia di Torino. E in un futuro, quando questo bambino sarà cresciuto e potrà far valere il diritto di conoscere i propri genitori biologici, come si sentirà scoprendo che per due giorni tutta l’Italia ha guardato la sequenza della loro separazione?

Se non fossimo in un periodo di propaganda martellante sulla necessità di diventare madri, si potrebbe dire che si tratta dell’ennesimo caso di violazione delle regole deontologiche da parte dei giornalisti. Ma proprio il fatto che il video sia stato diffuso dai telegiornali Rai fa venire il dubbio che questa mossa non serva altro che a rafforzare l’unica visione della maternità possibile, quella in cui una donna deve accettare la gravidanza e la maternità, senza via di uscita.

Perché se una donna pensa di interrompere la gravidanza, si troverà davanti un esercito di persone che la dissuaderà dal farlo, che le prometterà aiuto e sostegno economico, che le dirà che l’aborto è un omicidio e che diventare madre in realtà è il suo destino. E quando questa gravidanza arriverà al termine, e ancora non vorrà portare avanti il progetto familiare, non avrà scelta: non conoscerà la possibilità del parto in anonimato, oppure, anche se la conoscerà, correrà il rischio concreto che tutto il Paese cerchi di risalire alla sua identità. E allora potrà portare il neonato in una culla per la vita, gestita per altro dagli stessi che l’hanno convinta a non abortire, e troverà sui giornali descrizioni minuziose della sua calligrafia, nonché video di personaggi famosi che la supplicano di ripensarci. E allora quel bambino crescerà qualche mese e non le resterà altra scelta che portarlo nel luogo più sicuro che le possa venire in mente. E nemmeno quella possibilità andrà bene, perché nessuna possibilità va bene, per una donna che rifiuta il ruolo di madre.

La donna che non riconosce e il neonato sono i due soggetti che la legge deve tutelare, intesi come persone distinte, ognuno con specifici diritti”, si legge sul sito del Ministero della salute, nella scheda che illustra il parto in anonimato. Un principio che dovrebbe valere in ogni caso.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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