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Perché il Decreto sicurezza di Salvini ostacola chi vuole combattere davvero la mafia

Vendita al migliore offerente, condono edilizio per gli immobili confiscati, conflitto di interessi per l’Agenzia: mentre le norme sui permessi di soggiorno potrebbero garantire alla mafia nuova manovalanza ricattabile, il provvedimento salviniano rappresenta già un problema per la gestione sociale dei beni sottratti alla criminalità organizzata.
A cura di Roberta Covelli
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Il governo ha approvato all’unanimità il Decreto sicurezza, firmato oggi da Mattarella. Si tratta di un testo estremamente vario, che sembra impattare principalmente sulle condizioni degli stranieri, ma che prevede anche diverse modifiche alla normativa antimafia. Vediamo quali, prima sul piano strettamente tecnico, poi valutando politicamente le scelte contenute nel provvedimento.

Il titolo II del decreto si occupa di "disposizioni in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa". A richiamare l’attenzione per la loro incoerenza rispetto a politiche antiterrorismo o antimafia sono innanzitutto due norme che sembrerebbero invece funzionali alla repressione di manifestazioni e occupazioni dei centri sociali: è il caso della previsione di un’aggravante per il reato di invasione di terreni, con l’aumento della pena per promotori e organizzatori, e della modifica del reato di blocco stradale, che passa dal punire chi ostruisce con oggetti le strade ferrate alla reclusione da uno a sei anni per qualunque tipo di ostacolo alla circolazione, anche su strada ordinaria.

Rispetto alla revisione del codice antimafia (d.lgs. 159/2011), poi, si registrano modifiche, non particolarmente incisive, alle procedure per le misure di prevenzione, con il fine di snellire alcuni procedimenti e garantire l’accesso ai documenti a diversi giudici e uffici. È inoltre previsto l’inasprimento della pena per subappalto illecito, che da contravvenzione diventa delitto.

La materia che invece subisce modifiche più incisive è la gestione dei beni confiscati e sequestrati. Si permette innanzitutto il cumulo degli incarichi di gestione dell'amministratore giudiziario: se in precedenza uno stesso soggetto poteva occuparsi soltanto di tre beni immobili, a prescindere che di essi fosse amministratore o coadiutore (cioè collaboratore nella gestione di un altro amministratore), con il decreto sicurezza sono esclusi dal conteggio i beni per i quali il soggetto è coadiutore. Così, a una stessa persona, possono essere assegnati da amministrare di fatto più di tre immobili. Ma non è l’unico cambiamento relativo alla gestione: il decreto sicurezza sostituisce i commi 5, 6 e 7 dell’articolo 48 del codice, introducendo la possibilità di vendita non più soltanto a enti pubblici, fondazioni bancarie o cooperative di lavoratori di Forze di polizia, ma "al migliore offerente", così superando del tutto il principio di uso sociale dei beni confiscati alla mafia. E non è l’unica novità: entro centoventi giorni, l’acquirente può chiedere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (cioè con condono edilizio).

A chi finiscono i proventi della vendita dei beni confiscati? Prima, la somma rientrava nel Fondo Unico Giustizia ed era divisa equamente tra Ministero dell’Interno e Ministero della Giustizia: l'Agenzia che gestisce i beni sequestrati e confiscati non incassava nulla in caso di vendita agli enti. Con il decreto sicurezza la quota per i ministeri viene diminuita, per poter garantire all’Agenzia il 20% dei proventi della vendita degli immobili: l'Agenzia, che decide dell'amministrazione e della destinazione dei beni, finisce quindi per avere un interesse finanziario sul loro rendimento. E, se da un lato aumenterebbe la liquidità nella disponibilità dell’Agenzia (con l'ombra del conflitto di interessi di aumentare le vendite a discapito delle concessioni a uso sociale), dall’altro la materia del bilancio viene sottratta dalle competenze del Comitato consultivo di indirizzo (con l’art. 37 co. 2 del decreto sicurezza che modifica l’articolo 112 del codice antimafia). Gli attuali membri del Comitato consultivo di indirizzo sono stati nominati il 26 aprile 2018, con decreto di Minniti: sono dirigenti designati da diversi ministeri ed enti di ispirazione sociale (Ministeri dello Sviluppo economico, del Lavoro e delle Politiche sociali, dell’Università e della Ricerca, degli Interni, Dipartimento per le politiche di coesione, Conferenza delle Regioni, Anci, oltre a rappresentanti di associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, di cooperative e di enti che possono essere destinatari o assegnatari di beni confiscati).

A questo cambio delle funzioni degli organi, si aggiungono le norme sull’Agenzia Nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Il decreto sicurezza modifica l’articolo 110 del codice antimafia senza modificarlo davvero: si limita infatti a spostare alcune parole. Prima del decreto salviniano, la frase secondo cui l’Agenzia "è posta sotto la vigilanza del Ministro dell’Interno" era alla fine del periodo, mentre ora le parole che specificano il legame con il Viminale sono poste prima ancora della sua definizione di ente con personalità giuridica di diritto pubblico. E, per far capire ancor meglio la questione retorica e di potere, basta leggere l’art. 36, co. 3, lett a) del decreto sicurezza, che, riguardo alla destinazione dei beni immobili per finalità economiche dell’Agenzia, richiede non più l’autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma quella del Ministro degli Interni.

Un decreto da bocciare anche sul piano politico

Con queste modifiche, anche la gestione dei beni confiscati finisce per essere trattata come una questione di pubblica sicurezza, invece di costituire un’occasione di rilancio sociale e culturale. La concezione politica del fenomeno mafioso resta allora, tutt'al più, in un’ottica soltanto repressiva e securitaria. Eppure, nonostante l'elemento imprescindibile di controllo del territorio anche tramite violenza, la mafia non è semplicemente una banda armata o un gruppo paramilitare, ma rappresenta una realtà criminosa che esercita il suo potere con la minaccia e con il consenso e che si arricchisce tramite illegalità, investendo però anche nell’economia legale. Peraltro, nemmeno sulle violenze mafiose o a esse riconducibili il Viminale ha inteso prendere una posizione concreta: è ormai scaduto il termine dell’interrogazione a risposta scritta proposta al Ministro degli Interni per capire che cosa intenda fare rispetto al fenomeno delle stese a Napoli Est. Nel frattempo, le sparatorie tra i civili non hanno comunque impegnato la comunicazione social di Salvini.

D’altronde, la lotta alla mafia non era nemmeno nominata nel programma elettorale della sua Lega, e neanche le proposte del M5S brillavano per concretezza. Il cosiddetto Contratto di governo, pur con una certa vaghezza, affrontava invece finalmente il tema della criminalità organizzata, proponendo di "implementare gli strumenti di aggressione ai patrimoni di provenienza illecita, attraverso una seria politica di sequestro e confisca dei beni e di gestione dei medesimi, finalizzata alla salvaguardia e alla tutela delle aziende e dei lavoratori prima dell’assegnazione nel periodo di amministrazione giudiziaria". Il risultato? L’aggressione dei patrimoni mafiosi resta arginata a sequestro e confisca, con la possibilità di vendita "al migliore offerente", che potrà poi anche accedere al condono edilizio. Ma, nel frattempo, il governo si disinteressa dei lavoratori delle aziende confiscate: non solo nelle modifiche operate dal decreto sicurezza mancano norme relative alla tutela dell’occupazione per le imprese sequestrate o confiscate, ma non si è nemmeno dato seguito alla delega parlamentare che, con la riforma del codice antimafia, demandava al governo l’adozione di un decreto legislativo per l’emersione del lavoro irregolare, da un lato, e l’accesso agli ammortizzatori sociali, dall’altro. L'unica notizia in merito è contenuta in un comunicato stampa del governo Gentiloni, che dà conto dell'adozione del decreto attuativo, che però, nel frattempo, sembra essersi volatilizzato. Era un provvedimento che il governo avrebbe dovuto adottare entro quattro mesi: ne sono passati più di undici.

Qual è, allora, l’antimafia secondo Salvini? Niente di attuale sul piano del controllo del territorio, con il Viminale che alle stese e agli strumenti di intimidazione tipici della mafia non sembra dedicare lo stesso impegno profuso per gli sgomberi di immobili occupati. La lotta alla criminalità organizzata diventa casomai strumento retorico per punire reati di manifestazione (blocco stradale e invasione di terreni), mentre si fanno passi indietro rispetto alla gestione dei beni confiscati, con l’apertura alla vendita a privati e l’abbandono dell’idea di riuso sociale.

Senza contare gli effetti indiretti del Decreto sicurezza: il rischio di clandestinità non provocherà la diminuzione del numero di stranieri sul territorio, quanto piuttosto l’aumento della loro ricattabilità. Così, mentre si ignora la sicurezza dei civili italiani minacciati dalla violenza mafiosa, si aprono nuovi rami di mercato illecito (il traffico di esseri umani irregolari) e si forniscono le organizzazioni criminali di altra manodopera ricattabile, un esercito di nuovi poveri, nuovi invisibili, nuovi clandestini adatti alle esigenze sommerse della mafia.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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