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Opinioni

L’ipocrisia di Macron quando dice che l’aborto deve essere inserito tra i diritti fondamentali in Ue

Dopo l’elezione dell’antiabortista Metsola al Parlamento europeo, s’inaugura il semestre francese alla presidenza del Consiglio UE, con la proposta di riconoscere solennemente il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza: ma non basta la dichiarazione, serve garantire il diritto a tutte le donne.
A cura di Roberta Covelli
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Tocca alla Francia la presidenza del Consiglio UE per il prossimo semestre e così Emmanuel Macron ha esposto al Parlamento europeo progetti e speranze sulla legislazione comunitaria. Tra i diversi temi, tra cui emergenza ambientale, rivoluzione digitale, immigrazione e riarmo, il presidente francese ha dichiarato l’intenzione di valorizzare la Carta dei diritti fondamentali, approvata a Nizza nel 2000, rendendo più esplicita la tutela dell’ambiente e il riconoscimento del diritto all’aborto.

La replica a Macron della connazionale Aubry

Quest’ultima dichiarazione non è passata inosservata. Manon Aubry, co-presidente del gruppo parlamentare GUE/NGL, nella replica al discorso di Macron, ha sottolineato come la dichiarazione di un diritto e l’effettività della sua tutela non siano immediati: "Lei sostiene di rappresentare un'Europa che protegge ma crede di aver protetto le donne con la grave elezione di un'antiabortista alla guida del Parlamento europeo?". Il riferimento è evidentemente all'elezione di Roberta Metsola, di destra conservatrice e proveniente da Malta, uno dei pochissimi paesi dell’eurozona in cui l’aborto è vietato.

La capogruppo della sinistra ambientalista, Aubry, ha inoltre aggiunto: "Non basta mettere l'aborto nella carta dei diritti fondamentali, poi bisogna difenderlo e non venire a patti con paesi come la Polonia che distruggono questo diritto fondamentale". L’esempio della Polonia è noto, e ha causato anche l’apertura di una procedura di infrazione, oltre a una pronuncia della corte e a una risoluzione parlamentare. Il tribunale costituzionale polacco, il 22 ottobre 2020, ha infatti dichiarato illegittima la disposizione che prevedeva la possibilità di ricorrere all’aborto nel caso in cui gli esami prenatali rivelassero gravi e irreversibili malformazioni del feto, così sancendo di fatto un divieto generalizzato di aborto, salvo pericolo di vita per la madre. A questo si aggiungono i vari tentativi di criminalizzare ulteriormente quello che, per il suo legame con la libertà di scelta e con il diritto all’integrità fisica, è un diritto: lo stesso Parlamento europeo, nel giugno 2021, ha adottato una risoluzione che riconosce i diritti sessuali e riproduttivi come diritti umani fondamentali.

Le legislazioni degli Stati membri sull'interruzione volontaria di gravidanza

Nel resto d’Europa, almeno sulla carta, l’aborto è consentito, almeno entro periodi variabili del primo trimestre di gestazione. Nella maggior parte degli Stati la scelta di abortire dipende solo dalla donna, mentre in altre nazioni, come la Finlandia, l’interruzione volontaria di gravidanza è possibile solo a fronte di particolari ragioni (esito di stupro, pericolo per la vita o la salute, malformazioni del feto). Sebbene consentita, tuttavia, in alcuni paesi la richiesta di procedere all’aborto è sottoposta a ulteriori restrizioni e condizionamenti, come un periodo di attesa, non medicalmente giustificato, tra la richiesta e l’effettuazione dell’aborto e l’obbligo di sottoporsi a consulti psicologici e a ricevere informazioni schierate. Non mancano i meccanismi di criminalizzazione della scelta: in Ungheria, la costituzione adottata nel 2011 dichiara di tutelare il diritto alla vita "fin dal suo concepimento", dizione che ha richiesto un chiarimento sul piano europeo, proprio per escludere che si potesse comprimere il diritto della donna all’aborto. Sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza non sia vietata in Ungheria, non mancano atti di propaganda, come l’affissione di manifesti antiabortisti, oltre alla costante adesione di Orban a ogni appello o dichiarazione antiabortista.

L'obiezione di coscienza è un ostacolo al diritto all'aborto

Nel resto degli Stati membri, la tutela del diritto all’aborto non è sempre effettiva. In quasi tutti gli Stati membri, è infatti ammessa l’obiezione di coscienza. In un report del 2017 del Consiglio d’Europa si rileva come, anche se il diritto è sancito, le donne devono comunque confrontarsi con diverse barriere: "Diversi Stati membri non sono riusciti ad adottare un adeguato quadro normativo e misure applicative per assicurare che le donne possano ancora accedere ai servizi di aborto legale, nella pratica, quando professionisti medicali si rifiutino di prestare assistenza per ragioni di coscienza".

In Italia il numero di ginecologi obiettori, e di infermieri e operatori sociosanitari che si rifiutano di prestare servizio per interruzioni volontarie di gravidanza, è preoccupantemente alto: in alcune zone ci sono ospedali del tutto privi di personale che applichi la legge 194, altre strutture in cui la quota di obiettori è superiore all’80%, con un serio impatto sulla possibilità di accedere al diritto all’aborto. Sebbene i dati siano chiusi e aggregati, e potrebbero quindi essere migliorati e resi accessibili, il Ministero della Salute italiano effettua statistiche sulle percentuali di obiettori di coscienza, che dimostrano come tale quota sia alta al punto da mettere a rischio l’effettività del diritto all’aborto, come peraltro dichiarato dal Comitato europeo dei Diritti sociali, a seguito di un ricorso della Cgil. In altri Stati, l’obiezione di coscienza è ammessa e invocata dal personale medico, infermieristico e assistenziale, ma senza statistiche ufficiali, come quelle italiane. Era la stessa Manon Aubry a denunciare nel 2019, in un comunicato femminista, la situazione francese: "Negli ultimi venti anni, il numero di ospedali di maternità in Francia si è dimezzato. Questo scandalo sanitario si accompagna ad un altro, meno pubblicizzato: sono scomparsi anche molti centri che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG), rendendo ancora più difficile l’accesso all’aborto. La riduzione delle risorse umane e materiali dell’ospedale pubblico sta creando tempi di attesa sempre più lunghi, che troppo spesso portano a superare il termine legale entro il quale è consentito l’aborto".

Non basta insomma affermare solennemente un diritto perché questo sia garantito: è necessario piuttosto creare le condizioni affinché la sua tutela possa essere effettiva, in sede istituzionale come nelle prassi degli ospedali.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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