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Istat, effetto Covid: record negativo nascite da Unità d’Italia, peggio solo il 1918 con la Spagnola

Secondo il ‘Censimento della popolazione e dinamica demografica’ dell’Istat nel 2020 c’è stato un record negativo di nascite (405 mila), a fronte di un elevato numero di decessi (740 mila).
A cura di Annalisa Cangemi
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La pandemia di Covid-19 ha accentuato la tendenza alla recessione demografica già in atto, e il decremento di popolazione registrato tra l'inizio e la fine dell'anno 2020 risente di questo effetto. È l'analisi dell'Istat nel ‘Censimento della popolazione e dinamica demografica – anno 2020'.

La perdita di popolazione registrata al Nord è indubbiamente legata al forte eccesso di decessi rispetto alle nascite e alla contrazione del saldo migratorio, cioè la differenza tra ingressi dall'estero e uscite verso l’estero. Se nel 2019 il calo di popolazione era stato piuttosto contenuto sia nel Nord-Ovest che nel Nord-Est (rispettivamente -0,06% e -0,01%), nel corso del 2020 il Nord-ovest registra una perdita dello 0,6% e il Nord-est dello 0,3%.

La diminuzione di popolazione nel Centro si accentua solo lievemente (da -0,3% del 2019 a -0,4% del 2020), mentre è decisamente più marcata al Sud e nelle Isole (rispettivamente -1,2% e -1,0%), anche per effetto della correzione censuaria al ribasso già descritta. Il diverso impatto che l’epidemia da Covid-19 ha avuto sulla mortalità nei territori – maggiore al Nord rispetto al Mezzogiorno – e la contrazione dei trasferimenti di residenza spiegano la geografia delle variazioni dovute alla dinamica demografica.

"Il nuovo record minimo delle nascite (405 mila) e l'elevato numero di decessi (740 mila) aggravano la dinamica naturale negativa che caratterizza il nostro Paese. Il deficit di ‘sostituzione naturale' tra nati e morti (saldo naturale) nel 2020 raggiunge -335 mila unità, valore inferiore, dall'Unità d'Italia, solo a quello record del 1918 (-648 mila), quando l'epidemia di "spagnola" contribuì a determinare quasi la metà degli 1,3 milioni di decessi registrati in quell'anno".

Il deficit dovuto alla dinamica naturale è riscontrabile in tutte le Regioni, perfino nella provincia autonoma di Bolzano (-256 unità), che negli ultimi anni si è caratterizzata per una tendenza positiva grazie a una natalità più alta della media. Il tasso di crescita naturale, pari a -5,6 per mille a livello nazionale, varia dal -0,5 per mille di Bolzano al -11,2 per mille della Liguria.

Le Regioni che più delle altre vedono peggiorare il saldo naturale (intorno al 4 per mille in meno rispetto al 2019) sono la Valle d'Aosta (-8,3 per mille) e la Lombardia (-6,6 per mille); solo la Basilicata (-5,8 per mille) e la Calabria (-3,8 per mille) si assestano su valori simili a quelli registrati nel 2019.

Il deficit di nascite rispetto ai decessi è tutto dovuto alla popolazione di cittadinanza italiana (-386 mila), mentre per la popolazione straniera il saldo naturale resta ampiamente positivo (+50.584). Il tasso di crescita naturale degli stranieri è pari in media nazionale a 9,9 per mille: il valore più elevato si registra in Veneto (11,9 per mille), quello più basso in Sardegna (5,0 per mille). Senza il contributo fornito dagli stranieri, che attenua il declino naturale della popolazione residente in Italia, si raggiungerebbero deficit di sostituzione ancora più drammatici.

L'Italia è sempre più anziana

Si accentua l'invecchiamento della popolazione italiana. La struttura per età si conferma anche nel 2020 fortemente squilibrata a favore della componente anziana della popolazione. Rispetto all'anno precedente per entrambi i generi scende leggermente il peso percentuale delle classi 25-29, 35-39, 40-44 e 75-79 anni mentre aumenta (sempre di poco) quello delle classi 55-59, 60-64 e 70-74 anni. Di conseguenza anche l'età media si innalza, da 45 a 45,4 anni, pur con una certa variabilità nella geografia dell'invecchiamento.

La Campania, con un'età media di 42,8 anni (42 del 2019), continua a essere la regione più giovane, la Liguria quella più anziana (48,7 come nel 2019). Il comune più giovane è, come nel 2019, Orta di Atella, in provincia di Caserta (età media 35,7 anni), mentre il più vecchio è Ribordone, in provincia di Torino (età media 66,1 anni). Lo squilibrio della piramide per età della popolazione è ben evidenziato anche dal confronto tra la numerosità degli anziani (65 anni e più) e quella dei bambini sotto i 6 anni di età. Nel 2020 per ogni bambino si contano 5,1 anziani a livello nazionale, valore che scende a 3,8 in Trentino-Alto Adige e Campania, e arriva a 7,6 in Liguria.

Stranieri in Italia sono oltre 5 milioni

"Al 31 dicembre 2020 gli stranieri sono 5.171.894, 132.257 in più dell'anno precedente", specifica ancora Istat. "Il conteggio della popolazione straniera è stato definito sulla base della dinamica demografica di fonte anagrafica (saldo naturale e saldo migratorio) intercorsa nell'anno 2020, combinata alle risultanze derivanti dai ‘segnali di vita amministrativi' (saldo tra sovra e sotto copertura anagrafica degli stranieri)".

"Dunque, rispetto alla popolazione ottenuta a fine anno in base ai soli dati di flusso della dinamica demografica, gli stranieri censiti sono circa 150mila in più, per effetto di un ‘aggiustamento statistico' di tale entità".

"L'età media è di 34,8 anni ma la componente maschile (32,9) è più giovane di quella femminile (36,7) di quasi 4 anni, grazie a una maggiore incidenza di maschi in età 0-29 anni. I minori stranieri sono 1.047.873, pari al 20,3% del totale della popolazione straniera censita".

"Confrontando la struttura per genere ed età degli italiani con quella degli stranieri emerge una piena similitudine nella distribuzione per genere, con una leggera prevalenza di donne (51,2% per gli stranieri e 51,3% per gli italiani) e una rilevante difformità nel profilo per età: la piramide delle età degli italiani ha infatti una forma invertita rispetto a quella degli stranieri – si spiega ancora – La quota di minorenni è pari al 15,4% tra gli italiani e al 20,3% tra gli stranieri. In particolare, ha meno di 10 anni il 12,3% degli stranieri contro il 7,7% degli italiani mentre gli over 60 sono circa il 9% tra gli stranieri e quasi un terzo tra i connazionali". 

Sempre più laureati ma resta divario territoriale

Aumenta il numero di laureati ma rimangono le differenze territoriali. "Il livello di istruzione rilevato in Italia in occasione del Censimento 2020 è analogo a quello registrato l'anno precedente. La maggior parte della popolazione di 9 anni e più, esattamente il 36,0%, ha conseguito un diploma di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale, il 29,3% la licenza di scuola media, il 15,4% la licenza di scuola elementare, il 4,4% non possiede un titolo di studio".

"I laureati, compresi coloro che hanno un diploma di Alta Formazione Artistica Musicale o coreutica , si attestano al 14,5% mentre i dottori di ricerca sono 236.086 – si legge ancora – Rispetto al 2019 diminuiscono gli alfabeti che non hanno concluso un corso di studi (dal 4,0% al 3,8%) così come le licenze elementari passano dal 16,0% al 15,4% e quelle di scuola media dal 29,5% al 29,3%. Aumentano, sia in valore assoluto che relativo, i diplomati e i titoli terziari di I e II livello e restano stabili, in percentuale, gli analfabeti e i dottori di ricerca".

"Gli analfabeti e gli alfabeti senza titolo di studio presentano quote superiori al valore nazionale (4,4%) nel Sud (5,6%) e nelle due Isole maggiori (5,5%); lo stesso accade per le licenze di scuola elementare e media. A partire dai diplomi di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale la tendenza si inverte, con livelli più alti nelle regioni settentrionali e del Centro", emerge ancora dai dati Istat.

"Il Lazio è la regione con più laureati (18,5%), seguita da Abruzzo (15,9%), Umbria (15,7%) e Molise (15,6%) – conclude – sopra la media nazionale (14,5%) si collocano anche Emilia-Romagna (15,5%), Marche (15,4%), Lombardia, provincia autonoma di Trento (15,3%) e Liguria (15,1%)".

Più donne tra i laureati e i senza titoli di studio

I dati censuari del 2020 dell'Istat confermano che il 55,8% dei titoli terziari di I e II livello, compresi i dottorati di ricerca, è stato conseguito da donne. La prevalenza femminile si ha anche per le licenze di scuola elementare (58,7% contro 41,3%) così come per gli analfabeti e gli alfabeti che non hanno completato un corso di studi (58,3% donne, 41,7% uomini).

I diplomi di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale si distribuiscono equamente tra i due sessi mentre per le licenze di scuola media si contano, come nel 2019, 53 maschi e 47 femmine. A livello regionale il gap di genere più importante si ha per coloro che non hanno conseguito un titolo di studio: in Basilicata, su 100 individui 64 sono donne, 63 in Umbria e Marche. Il Trentino-Alto Adige è l'unica regione in cui la componente maschile non istruita sovrasta, anche se di poco, quella femminile (50,4% contro 49,6%).

Differenze di genere sul territorio si hanno anche per le licenze di scuola elementare: in Friuli-Venezia Giulia, Liguria e Veneto le donne rappresentano oltre il 60% delle persone con il grado più basso previsto dal nostro sistema di istruzione. Per licenze di scuola media e diplomi di scuola secondaria superiore il divario tra i due sessi non raggiunge mai i 10 punti percentuali. Nel primo caso, i valori oscillano tra l'1,8% del Friuli-Venezia Giulia (50,9% maschi e 49,1% femmine) e il 9,2% della Toscana (54,6% maschi e 45,4% femmine), nel secondo si va dalla Sicilia in cui le due poste, in percentuale, si equivalgono al Molise dove i diplomati sono per il 52,8 % uomini e per il restante 47,2% donne.

Il gap torna a salire tra i laureati. In Sardegna, ogni 100 residenti con un titolo post diploma secondario quasi 60 (59,4) sono donne, 58 in Umbria. In Lombardia si riscontra il maggior equilibrio di genere: uomini e donne hanno percentuali pari rispettivamente al 45,3% e al 54,7%.

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