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Ignazio Marino: la congiura del foglio bianco

Cesare cadde con ventitré coltellate, Marino scivola su un foglio di carta recante ventisei firme di dimissioni. Nuovi “statisti” e vecchi potenti lo hanno mandato a casa. Eppure l’ex sindaco, come Cesare, avrebbe dovuto capire dai nefasti presagi il destino che lo attendeva.
A cura di Marcello Ravveduto
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«Publio Servilio Casca Longo sfoderò il pugnale e colpì Cesare al collo, causandogli una ferita superficiale e non mortale. Cesare invece, per nulla indebolito, cercò di difendersi con lo stilo che aveva in mano, e apostrofò il suo feritore dicendo "Scelleratissimo Casca, che fai?" o gridando "Ma questa è violenza!" Casca, allora, chiese aiuto al fratello, e tutti i congiurati che si erano fatti attorno a Cesare si scagliarono con i pugnali contro il loro obiettivo: Cesare tentò inutilmente di schivare le pugnalate dei congiurati, ma quando capì di essere circondato e vide anche Bruto farglisi contro, raccolse le vesti per pudicizia e alcuni dicono si coprisse il capo con la toga prima di spirare, trafitto da ventitré coltellate».

Questa ricostruzione è quella più prossima al fatto accaduto che è passato alla storia per il banale «tu quoque, Brute, fili mi?». In verità, Bruto è solo uno dei congiurati, forse il più codardo, oltre che il più vigliacco perché si fa scudo degli altri prima di affondare la lama nel corpo già trafitto di Cesare.

Publio Servilio Casca Longo è il provocatore, quello che lancia l’avvertimento, l’uomo che dà il segnale agli altri in attesa di scagliarsi sull’uomo che fino a qualche anno prima hanno portato in gloria come salvatore di Roma e condottiero implacabile contro i barbari minaccianti i possedimenti della Repubblica.

La nomenclatura degli ottimati e gli ambiziosi esclusi dal potere, dopo la proclamazione della dittatura a vita, congiurano contro Cesare. Uno più di tutti, uno che vuole accedere agli scranni più alti del potere, Gaio Cassio Longino, deluso dall’essere stato trattato come uno qualunque, comincia a tramare con gli esponenti della nobilitas. Roma è sempre stata loro, i consoli passano le famiglie restano, dominando il Senato, le Prefetture e la Giustizia. Poi arriva Cesare che si attribuisce poteri speciali e riforma l’amministrazione sottraendola al controllo dei patrizi ma commettendo l’errore di accentrarla nelle sue sole mani.

Come in tutte le congiure troviamo tra i promotori antichi nemici, nuovi opportunisti, vecchi compagni traditori e sostenitori silenti (che hanno quasi sempre il compito di giustificare moralmente l’atto di violenza per fini superiori legati alla difesa della Res Pubblica).

La storia racconta che l’agguato fu preceduto da nefasti presagi che avrebbero dovuto rendere Cesare guardingo, ma il “romano dei romani” non è tipo da superstizioni religiose e non bastano i sogni premonitori, il pianto dei cavalli, gli uccelli malauguranti, le suppliche della moglie e persino il consiglio di un indovino a fermare il suo ritorno al Senato dove i congiurati lo stanno attendendo per eliminarlo.

Ignazio Marino non è Cesare, non è un dittatore, non ha nemmeno lontanamente il carisma del Console romano. Non è un condottiero, né un esperto di affari di Stato, il suo unico esercito, se così si può dire, è quello degli infermieri che lo assistono in sala operatoria. Non è un politico navigato, né è capace di adottare strategie di dominio a largo raggio, anzi nella maggior parte dei casi le sue azioni, sul piano dell’ordinaria amministrazioni, sono manchevoli e le sue colpe stanno, forse, nell’incapacità di coprire queste lacune con il necessario fascino comunicativo che richiede la politica 2.0.

Eppure, mi pare, sia stato anch’egli vittima di una congiura, ordita da nuovi e giovani “statisti” in combutta con vecchi potenti, eterni come la città. Ventitré pugnalate contro ventisei dimissioni: il primo soccombe sotto i colpi dell’arma bianca, il secondo crolla sotto la spinta di foglio di carta; almeno non si è versato sangue. L’unico nesso che collega l’antico personaggio all’ex sindaco è l’aula Consiliare, detta di Giulio Cesare. Ed è proprio questo il luogo in cui si è ordita la congiura e si è consumato il dramma di Roma, lì sotto gli occhi immobili della statua dell’antico dittatore che fissa la platea questuante dei consiglieri capitolini, novelli interpreti del “Do ut des”, trasformato nel romanesco “Tu me dai ‘na cosa a me io te do ‘na cosa a te”. Tutto crolla, ma il Palazzo Senatorio rimane in piedi, ne ha viste di congiure e tradimenti, dai tempi dell’antico Tabulurium ai giorni nostri.

Marino cade, ma Roma non si alza. Vedremo cosa accadrà. Un sospetto mi attanaglia: vuoi vedere che lo hanno tolto di mezzo perché i “signori” di Mafia Capitale lo ritenevano uno poco affidabile? E come si fa a gestire il Giubileo con uno che si fa beccare per due scontrini (falsi o veri che siano)? Qui c’è da gestire milioni e milioni ci vuole qualcuno che tenga buoni gli ottimati e non un medico con la passione per la politica. Allo stesso tempo, non credo che Marino non avesse capito dove si stava infilando. E se lo aveva capito perché è tornato? L’unica ipotesi plausibile è che abbia cercato lo scontro per addossare la colpa del commissariamento ai congiurati, per potersi presentare come una vittima del Pd e del mandante occulto, per modo di dire.

Già me lo vedo qualche buon vecchio amico dell’ex sindaco, sostenitore silente della congiura, proporsi al popolo romano come successore. Salirà sul palco e, prendendo la parola, dirà:

«Amici, Romani, concittadini, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Marino, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Marino. Il nobile Orfini v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Marino ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Orfini e degli altri – ché Orfini è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Marino. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Orfini dice che fu ambizioso; e Orfini è uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Marino? Quando i poveri hanno pianto, Marino ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure Orfini dice ch’egli fu ambizioso; e Orfini è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Orfini dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, Orfini è uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Orfini disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Marino e debbo tacere sinché non ritorni a me».

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