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Opinioni

Come la destra al governo ha tentato un altro attacco ai diritti dei lavoratori

Proposta, protesta, ritirata: la maggioranza presenta nel silenzio estivo norme che peggiorano il diritto del lavoro, pronta al dietrofront se e quando si sollevano reazioni. Non sono sviste: è una strategia politica che svela gli interessi reali di chi governa in nome del popolo.
A cura di Roberta Covelli
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Prima l’emendamento Pogliese, che avrebbe limitato il diritto dei lavoratori a rivendicare crediti e retribuzioni, poi la proposta dei relatori di Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia sul lavoro somministrato, per rendere più lunghe le missioni e quindi più conveniente il lavoro precario. Entrambe le proposte arrivano in piena estate dalla destra che sostiene il governo Meloni. Ed entrambe sono state ritirate non appena sono uscite dal perimetro della commissione parlamentare e sono diventate oggetto di attenzione pubblica.

La sostanza cambia, ma il metodo resta. Si approfitta dell'estate e dei tempi stretti della conversione dei decreti per riscrivere (in peggio) le regole del lavoro. Poi, se e quando la protesta varca le soglie del Parlamento e fa notizia, la proposta viene ritirata. Una tattica sempre più visibile, che non cambia l’indirizzo politico ma ne rivela l’opportunismo.

L'emendamento sul lavoro somministrato

Fino a poche ore fa, nel mirino c’erano i limiti alla somministrazione di lavoro, che un tempo si chiamava lavoro interinale. Si tratta di un rapporto che coinvolge tre soggetti: il lavoratore, l’agenzia (che è il datore di lavoro formale) e l’impresa utilizzatrice (dove la prestazione viene effettivamente svolta). Disciplinata oggi dal d.lgs. 81/2015, questa forma contrattuale consente alle imprese di ottenere manodopera flessibile, ma espone i lavoratori a precarietà strutturale, spesso prolungata ben oltre le reali esigenze temporanee.

La legge attuale stabilisce un limite massimo di 24 mesi, anche non continuativi, per la missione dello stesso lavoratore presso lo stesso utilizzatore. È poi possibile prorogare la missione per altri 12 mesi, ma solo se la stipula avviene presso l’Ispettorato del lavoro. Sono limiti pensati per impedire che la somministrazione venga usata in modo elusivo, per coprire esigenze permanenti con lavoratori formalmente temporanei.

L’emendamento presentato al Senato dai relatori Damiani (FI), Mennuni (FdI) e Testor (Lega), durante l’esame in commissione bilancio del Decreto Economia, puntava a riscrivere radicalmente questo assetto, in tre mosse.

Primo: i limiti oggi validi per tutti i somministrati si sarebbero applicati solo ai lavoratori assunti dall’agenzia a tempo determinato. Per quelli assunti a tempo indeterminato, invece, si introduceva la possibilità di missioni più lunghe: fino a 36 mesi aggiuntivi oltre ai 24 già previsti.

Secondo: se l’impresa utilizzatrice non aveva mai impiegato prima il lavoratore, il limite massimo sarebbe salito a 48 mesi.

Terzo (forse più grave): i nuovi limiti avrebbero avuto decorrenza retroattiva dal 12 gennaio 2025, azzerando i periodi di missione svolti prima di quella data. Così, chi è in somministrazione da due anni si sarebbe ritrovato a ripartire da zero, prolungando la precarietà per altri cinque anni.

Una norma scritta male e pensata peggio

Proviamo a fare qualche calcolo. Un lavoratore assunto a tempo indeterminato da un’agenzia per il lavoro è impiegato, in somministrazione, presso un utilizzatore dall’agosto 2023. Ad oggi, sono passati quasi due anni: un tempo che dovrebbe avvicinarlo alla stabilizzazione o al cambio di missione. Secondo la proposta della maggioranza, però, quel tempo dovrebbe azzerarsi e si ricomincerebbe a contare da capo. Da gennaio 2025, l’impresa utilizzatrice avrebbe a disposizione altri due anni (comma 2), più tre anni ulteriori (comma 2-bis), più un ulteriore anno in caso di proroga autorizzata presso l’Ispettorato (comma 3). In tutto, otto anni di lavoro precario per la stessa persona, nello stesso posto, senza assunzione diretta.

Certo, questo è uno scenario limite. Ma anche nella generalità dei casi, l’effetto sarebbe un sostanziale allungamento del tempo massimo di permanenza di uno stesso lavoratore in missione: cinque anni, o quattro, o forse sei, a seconda della situazione.

Il testo dell’emendamento era infatti scritto in modo confuso. Il nuovo comma 2-bis parlava di un "periodo complessivo, anche non continuativo ed ulteriore" rispetto ai 24 mesi: una formula contraddittoria, che apriva la porta a interpretazioni divergenti e opportunistiche. Ancora più opaco il comma successivo, che introduceva il limite dei 48 mesi per chi non era stato mai impiegato presso l’utilizzatore, creando un incentivo alla rotazione continua e all’instabilità permanente.

La logica che emerge è chiara: non quella della flessibilità, ma quella dell’elusione, a beneficio di chi vuol fare impresa senza assumersene rischi e responsabilità. Gli utilizzatori ottengono manodopera stabile senza dover assumere direttamente. Le agenzie fanno il pieno di contratti a tempo indeterminato solo formali, perché chi lavora resta sempre precario.

L'ennesima ritirata tattica che non cambia la rotta

Come già accaduto con l’emendamento Pogliese, anche questa proposta è stata ritirata. Ma la disinvoltura con cui vengono presentati certi interventi, e la fretta con cui vengono tolti appena suscitano reazioni, raccontano una strategia più profonda. Non si tratta di errori isolati o sviste correttive. È un metodo politico: testare la resistenza, forzare quando possibile, arretrare se necessario.

Non si tratta solo di cattive norme o di pessima tecnica legislativa. È un disegno ideologico che, sotto l’etichetta della flessibilità, promuove una visione del lavoro subordinato alla logica del profitto spregiudicato, piegato a rapporti di dominio sempre più squilibrati. Si ripropongono in forma aggiornata gli schemi di un secolo fa: il lavoratore come merce, il conflitto come delitto, il diritto come ostacolo, lo Stato come esecutore degli interessi del capitale, che la propaganda dipinge come interessi del popolo.

Ed è proprio in questo scarto tra parole e atti che si misura la distanza tra la narrazione di un governo del popolo e la realtà di un’azione politica che, sistematicamente e spesso di nascosto, indebolisce chi lavora e rafforza chi sfrutta.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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