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Niente più semilibertà alla Matei: l’indignazione popolare vince sul Diritto

La notizia della concessione del regime di semilibertà a Doina Matei ha creato un vero e proprio terremoto. E così, dopo lo scandalo suscitato dallo scoop del Messaggero, alla Matei è stata revocata la semilibertà, non è dato sapere quale obbligo avrebbe violato la detenuta. Esulando dal caso specifico, di una giustizia che risponde prontamente alle umorali richieste del popolo e non a quelle della razionalità e del diritto bisognerebbe aver paura.
A cura di Charlotte Matteini
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2016-04-12_1557
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E così, come spesso accade in Italia, si cerca di chiudere il cancello quando i buoi sono oramai fuggiti. Il caso di Doina Matei, tornato alla ribalta dopo nove anni in seguito a uno scoop pubblicato due giorni fa da Il Messaggero, è davvero emblematico e descrive perfettamente il baratro verso cui sta scivolando ogni giorno di più la giustizia italiana. Il fatto: Doina Matei nell'aprile del 2007 uccide con un'ombrellata Vanessa Russo e per questo viene condannata a 16 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Quando commise il reato la ragazza aveva 21 anni, viveva di espedienti, ma era formalmente incensurata.

Per effetto di tutta una serie di elementi e condizioni, una volta scontata la metà della pena detentiva comminata dal giudice e confermata dalla Cassazione nel 2010, la Matei ha avuto accesso al regime di semilibertà previsto dalla Legge Gozzini, ovvero quel regime detentivo che concede al condannato la possibilità di uscire dal carcere per lavorare in aziende e cooperative autorizzate per poi fare ritorno in carcere una volta finito il turno. A raccontarla così sembra quasi che il regime di semilibertà sia un regalo, che non faccia parte della pena, che sia un premio per il carcerato a cui addirittura viene trovato un lavoro, che sia in fin dei conti un favore.

Non è così, in realtà. La semilibertà prevede comunque di passare buona parte della propria giornata in galera, dietro le sbarre, in un luogo che non è propriamente paragonabile a un parco giochi. Come numerosi esperti hanno scritto nel corso dei secoli, affinché la riabilitazione di un individuo macchiatosi di un reato possa avere successo è necessario che il condannato abbia accesso, se meritate ovviamente, a tutta una serie di opportunità e possibilità che possano migliorare la sua condizione di essere umano.

Una volta scontata la pena e quindi una volta fuori dal carcere, il reo dovrà essere in grado di provvedere a se stesso in maniera totalmente autonoma, per evitare il rischio che possa tornare a vivere di espedienti e commettere altri reati. Per questo è così importante che la pena detentiva punti al reinserimento in società del reo e non tenga conto solamente della funzione punitiva della galera. Non essendo prevista la pena di morte nel nostro ordinamento, qualcosa bisognerà pur insegnare a quei detenuti che sappiamo prima o poi usciranno di galera, anche se tra 5, 10, 15, 20 anni. Se la funzione riabilitativa del condannato venisse eliminata, come molti invece vorrebbero, si rischierebbe di rimettere in libertà delle persone incattivite, che potrebbero commettere reati ancora più atroci.

La Matei, dunque, dopo aver scontato otto anni di carcere, aver seguito un lungo percorso di rieducazione e un iter burocratico infinito, l'anno scorso ha quindi avuto accesso a questo regime di semilibertà. Cosa significa questo? Significa semplicemente che secondo il giudice di sorveglianza che a suo tempo lo concesse, la Matei aveva i requisiti per ottenerlo, se lo meritava. Scoppiato lo scandalo, dopo due giorni in redazione arriva la notizia: "Provvisoria sospensione della semilibertà". Ancora non sono state rese note le motivazioni per cui si è arrivati a revocare la concessione, ma gli avvocati della Matei sostengono che non ci sia stata alcuna violazione degli obblighi di condotta da parte della detenuta.

La domanda che bisognerebbe porsi è una: è possibile che in uno Stato democratico che voglia definirsi civile, una persona che da un anno ha intrapreso l'iter di riabilitazione – percorso previsto e auspicato dal nostro ordinamento giuridico e costituzionale – possa vedersi privata tutt'un tratto di questa possibilità a cui ha diritto per legge perché un giudice decide di cambiare improvvisamente idea pur di non spiegare ai cittadini indignati il motivo per cui la Matei ha invece diritto ad affrontare questo tipo di percorso detentivo?

Il giornalismo italiano trovo abbia grandissime colpe. Abdicando a quello che dovrebbe essere il proprio ruolo primario ed essenziale, ovvero dare le notizie e spiegare i fatti inserendoli nel giusto contesto, i giornalisti italiani in buona parte hanno contribuito a creare un clima profondamente giustizialista, preferendo puntare sull'esasperazione dei toni e cercando di suscitare collera e sdegno nel proprio lettore. Dopotutto si sa, la razionalità paga poco. Stamane per esempio, nel "Buongiorno" dedicato al caso Matei pubblicato da La Stampa, Gramellini scrive:

Quelle immagini indignano e il moralismo non c’entra. Neanche il desiderio di vendetta. C’entra la sensibilità. C’entra che se ammazzi una persona, dovresti almeno avere il pudore di tenere per te le tue emozioni gioiose, senza ostentarle e tantomeno condividerle con chi patisce ancora le conseguenze del tuo delitto. Chi uccide per futili motivi mostra scarsissima considerazione del prossimo. Nove anni di carcere dopo, Doina Matei continua a infischiarsene degli effetti delle sue azioni. Viene il sospetto che per lei la pena, oltre che breve, sia stata inutile.

Così, senza mai averle parlato, senza mai averla incontrata, solo guardando delle fotografie pubblicate da un quotidiano, Gramellini ha sentenziato e sostenuto che, siccome la Matei dopo 9 anni non ha il pudore di non provare gioia, allora la pena non ha prodotto alcun cambiamento in lei. Per Gramellini, ma il pensiero è in realtà comune a tanti lettori e giornalisti, la pena ha effetto solo se il detenuto poi passerà la propria vita cercando di espiare duramente le proprie colpe, come se la galera non fosse già sufficiente. Per Gramellini, evidentemente, il carcere è troppo poco, nel paese (in)civile dei suoi sogni bisognerebbe impedire al reo di tornare a condurre una vita normale, di andare al mare, di sorridere, di vivere. Ci sono di mezzo dei morti e del dolore in questa storia, è verissimo. E' anche vero che è umanamente comprensibile che un amico, la madre, il padre, un conoscente di Vanessa o di qualsiasi altra persona morta ammazzata possano provare rabbia e desiderio di vendetta. Quel che però è necessario sottolineare è che proprio per evitare che i parenti delle vittime potessero cercare di farsi giustizia da soli che esiste un Diritto, dei tribunali, dei giudici capaci di amministrare la giustizia in vece di persone emotivamente troppo coinvolte per farlo da sé.

Qualcuno sarà molto soddisfatto per la revoca del regime di semilibertà alla Matei, immagino. Ma cercando di esulare dal caso specifico, di una giustizia che risponde prontamente alle umorali richieste del popolo e non a quelle della razionalità e del diritto bisognerebbe aver paura, francamente.

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Milanese, classe 1987, da sempre appassionata di politica. Il mio morboso interesse per la materia affonda le sue radici nel lontano 1993, in piena Tangentopoli, grazie a (o per colpa di) mio padre, che al posto di farmi vedere i cartoni animati, mi iniziò al magico mondo delle meraviglie costringendomi a seguire estenuanti maratone politiche. Dopo un'adolescenza turbolenta da pasionaria di sinistra, a 19 anni circa ho cominciato a mettere in discussione le mie idee e con il tempo sono diventata una liberale, liberista e libertaria convinta.
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