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Opinioni

Quando i napoletani batterono i francesi nella disfida di Barletta del 13 febbraio 1503

La disfida di Barletta del 13 febbraio 1503 vide tredici italiani, tra cui diversi napoletani, sfidare e battere altrettanti cavalieri francesi, che avevano accusato tutti gli italiani di essere soldati “codardi” e “vigliacchi”. Dopo la vittoria, grande festa a Barletta dove si festeggia ancora oggi.
A cura di Giuseppe Cozzolino
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Il monumento di Barletta che celebra la vittoria di Ettore Fieramosca su Guy de la Motte
Il monumento di Barletta che celebra la vittoria di Ettore Fieramosca su Guy de la Motte

Il 13 febbraio 1503 andò in scena nei pressi di Barletta, in Puglia, la celebre "disfida", lo scontro tra tredici cavalieri italiani ed altrettanti francesi che si risolse in una clamorosa vittoria italiana. Clamorosa perché, è bene ricordarlo, all'epoca il valore militare degli italiani era perennemente oggetto di scherno dagli eserciti stranieri: questo perché, nel corso dei secoli, l'Italia era stata sempre divisa e controllate dalle potenze straniere che si erano sviluppate nel resto d'Europa.

E pochi sanno che tra i tredici cavalieri, di cui ancora oggi si tramanda la leggenda, tanti erano i napoletani (alcuni di nascita, altri di cittadinanza) che scesero in campo per la sfida, fissando il loro nome della leggenda e dando un sonoro ceffone all'arroganza dell'allora esercito francese, che voleva affermare il proprio dominio anche al sud, dove invece rimase forte la presenza spagnola. E la disfida di Barletta divenne, talvolta forse anche esageratamente, anche il simbolo del "riscatto" degli italiani davanti alle potenze straniere.

Il contesto storico

La scarsa considerazione degli italiani come combattenti risaliva a secoli prima. Mentre nel Medioevo la Francia, la Spagna e l'Inghilterra formavano già grandi nazioni, in Italia dopo la caduta dell'Impero Romano non vi era stato un popolo in grado di unificarla, come Franchi, Castigliani e Inglesi erano riusciti a fare nei loro paesi. Da noi ci avevano provato i Longobardi, e per un po' ci erano quasi riusciti: ma i Papi dell'epoca (Stefano II prima e Adriano I poi), timorosi di perdere il potere temporale, aveva chiamato proprio i Franchi per distruggere i Longobardi, e da allora la Penisola era stata alla mercé del potente di turno, frazionandosi in una miriade di piccoli stati che, di volta in volta, passavano a questa o quella nazione straniera, con lo Stato Pontificio al centro a tenerli divisi gli uni dagli altri.

"Così finì l’Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all'Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia. Ma in Francia non c’era il Papa. In Italia, sì", avrebbero poi detto Indro Montanelli e Mario Cervi secoli dopo. Ma questa è un'altra storia.

La disfida di Barletta del 13 febbraio 1503

Nel 1503 tutto questo era ormai una "solenne realtà". Si combatteva in Italia una delle tante guerre tra potenze straniere, nello specifico tra Francia e Spagna, per il controllo del territorio. La guerra era iniziata nel 1499 e procedeva di alterne fortune per entrambi gli schieramenti.  Nel gennaio 1503, i francesi erano però penetrati nel sud, riducendo la presenza spagnola e vincendo importanti battaglie. In una "scaramuccia" nei pressi di Barletta, però, alcuni di essi erano stati sconfitti e catturati dagli spagnoli, che li tennero come prigionieri di guerra. Tra questi vi era anche il nobile Charles de Torgues, soprannominato Monsieur Guy de la Motte, che venne come usanza dell'epoca trattato con tutti i riguardi.

Fu proprio lui, a cena con i suoi pari spagnoli, a sostenere che i soldati italiani fossero "codardi" e "vigliacchi". Gonzalo Fernández de Córdoba, lo spagnolo che era anche Gran Capitano dell'esercito (e che successivamente, tra il 1504 e il 1506, sarebbe diventato Viceré di Napoli), sostenne invece che le truppe italiane erano valorose e comunque non certo inferiori a quelle francesi. Ne nacque così una questione "personale" tra i due che, come usanza dell'epoca, non poteva che risolversi in un duello: da una parte tredici cavalieri italiani, dall'altra tredici cavalieri francesi. Le condizioni erano che cavalli ed armi degli sconfitti sarebbero stati concessi ai vincitori come premio, e che il riscatto per ogni cavaliere sconfitto fosse di cento ducati. A garanzia del tutto, furono nominati quattro giudici e due ostaggi per parte.

La formazione italiana

I tredici italiani erano tutti cavalieri che facevano parte del Regno di Napoli, chi per nascita e residenza, chi perché vi si trovasse come soldato "arruolato" dagli spagnoli. In testa, Ettore Fieramosca di Capua, che era il "capitano" della squadra italiana. Poi c'era Marco Corollario, detto Marco Di Matteo, di Napoli; quindi Mariano Abignente, di Sarno. C'era anche il cavaliere Ludovico Abenavoli, che discendeva direttamente da uno dei dodici cavalieri normanni che fondarono la città di Aversa. Assieme a loro il "napoletano" di cittadinanza, ovvero l'abruzzese Giovanni Capoccio di Tagliacozzo, assieme ai "napoletani" di Sicilia: Francesco Salamone di Messina, e Guglielmo Albamonte di Palermo. A loro, si aggiunsero quindi i romani Giovanni Brancaleone di Genazzano, ed Ettore Giovenale, soprannominato Peraccio Romano, che arrivava dalla Città Eterna. Completarono la formazione dei tredici italiani il "gruppo" che arrivava dal centro-nord: Domenico de' Marenghi, noto come Riccio da Parma perché arrivava da Soragna, comune alle porte del capoluogo parmense; Giovanni Bartolomeo Fanfulla, detto "Fanfulla di Lodi" perché arrivava da Basiasco, oggi frazione di Mairago in provincia di Lodi; quindi Sebastiano Romanello, detto Romello da Forlì perché arrivava dalla cittadina romagnola; ed infine Ettore de’ Pazzis, conosciuto come Miale da Troia, toscano ma che viveva appunto nella cittadina foggiana di Troia.

La sfida e la vittoria

I francesi, tra cui lo stesso nobile Guy de la Motte, erano così sicuri di vincere che non avevano portato con loro neanche i ducati necessari per il proprio riscatto, ed arrivarono anche in ritardo rispetto agli italiani, che invece già dalle ore prima dell'appuntamento erano sul posto. La piana, tra Andria e Corato, fu recintata e le regole furono quelle tipicamente medievali. Gli italiani vinsero sfruttando forza ed ingegno: inizialmente, infatti, non caricarono subito i francesi, ma arretrarono in modo da aprire piccoli varchi nelle loro file, per farvi finire dentro i cavalieri avversari di sorpresa. Inizialmente, la sorte arrise ai  francesi, che riuscirono a disarcionare due italiani. Ma anche qui, questi non si arresero, e colpirono i cavalli avversari riportando "per terra" anche i due cavalieri francesi.

Poi lo scontro passo al vero e proprio duello, a colpi di spada: e stavolta, la forza italiana ebbe nettamente il sopravvento. I francesi, ad uno ad uno, caddero catturati o feriti, ed alla fine il successo fu proprio degli italiani. Uno dei francesi, Pierre de Chals, che arrivava dalla Savoia, fu l'ultimo a cadere dei suoi. Non avendo portato ducati per il proprio riscatto, i francesi vennero portati in custodia a Barletta, dove fu proprio il generale spagnolo a pagarlo per loro. Gli italiani, intanto, furono accolti trionfanti a Barletta, dove si tenne una lunga festa per la vittoria. Che ancora oggi viene ricordata nella cittadina pugliese e non solo.

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Giuseppe Cozzolino, giornalista, classe 1984. Laureato in Lingue Straniere, lavoro con Fanpage.it dal 2012, attualmente in forza alla redazione di cronaca di Napoli. Videogamer e appassionato di musica, di cani e di storia, soprattutto antica.
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