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La verità per Giulio Regeni non è una questione privata

Secondo Salvini i rapporti con l’Egitto sono più importanti della giustizia per il ricercatore torturato. La dichiarazione del ministro degli Interni è l’esempio della concezione privatistica dei diritti: dall’eccesso di legittima difesa agli insulti contro l’accoglienza dei migranti, la libertà di farsi giustizia da sé cela il rischio della solitudine sociale.
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A cura di Roberta Covelli
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Matteo Salvini, catapultato dalle sezioni milanesi del Carroccio alla segreteria di partito, dalla mitologica Padania a una Lega senza più Nord nel nome, ha capitalizzato il 17% di consensi ottenuto alle elezioni, finendo al governo insieme al M5S e prendendosi ora la licenza di atteggiarsi contemporaneamente a premier, ministro degli Interni e portavoce. Intervistato dal Corriere, ad esempio, non si è limitato a discettare di migrazioni, di Aquarius e Ong e di asse italo-tedesco (con una scelta lessicale non particolarmente felice): senza apparenti domande da parte del giornalista, ha citato Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e ucciso in Egitto.

Sì, vogliamo ricostruire buoni rapporti con l’Egitto. Io comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, per l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto.

Al di là del caso in sé, la dichiarazione in questione è un esempio lampante della visione primitiva del diritto secondo Salvini. Anche volendo ignorare le responsabilità governative nella morte del giovane ricercatore, infatti, dal punto di vista giuridico la vicenda di un individuo rapito, torturato e ucciso è indubbiamente materia penale, cioè di diritto pubblico. Le sanzioni per i reati sono infatti previste e comminate non dai privati ma da una pubblica autorità, per garantire pari trattamento, rispetto dei diritti, sicurezza della società: il danno subito dalle vittime deve sì poter essere risarcito, ma chi ha sofferto le conseguenze del reato ha una posizione ulteriore ed eventuale rispetto al potere pubblico di punizione (tant’è che si parla di "costituzione di parte civile", appunto perché innesta in un istituto penalistico categorie di diritto privato).

Se il diritto penale fosse privato, non solo la punizione tornerebbe a essere una semplice vendetta privata, con rischi sia di impunità (per debolezza della vittima), sia di disumanità nella punizione (quando chi subisce il reato è più violento di chi lo commette), ma si giungerebbe al paradosso di escludere la punibilità per tutta una serie di reati in cui vittima e carnefice appartengono allo stesso nucleo familiare.

Tornando alla dichiarazione salviniana sul caso Regeni, quindi, la vicenda non può ridursi soltanto al desiderio della famiglia del ricercatore ucciso: la richiesta di giustizia, e la giustizia stessa, non possono essere una questione privata, ma tutta la società deve occuparsene, attraverso gli strumenti che storicamente e giuridicamente si è data.

Quello di Salvini non è peraltro un semplice commento di un episodio drammatico, bensì l’ennesima manifestazione di un pensiero politico che mira, consapevolmente o inconsciamente, alla privatizzazione dei diritti: quelle esigenze umane cui si risponde tramite la società tornano nella disponibilità dei singoli, con tutti i rischi che questa scelta comporta. È il caso ad esempio della proposta di eliminazione del requisito di proporzionalità dalla legittima difesa: si demanda così completamente al singolo la protezione di se stesso, permettendogli gli eccessi ma lasciandolo anche solo, rispetto a un diritto, quello alla sicurezza, che dovrebbe essere garantito dall’ambiente sociale in cui vive e partecipa. O, ancora, nella reazione contro chi si schiera per l’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo: "portali a casa tua" è il ritornello spesso indirizzato ai cosiddetti buonisti. E, così, una questione pubblica, cioè il rispetto dei diritti (alla libertà di movimento e all’asilo), viene ridotta a questione privata.

È il caso di ricordare allora, a Salvini e a coloro che utilizzano la sua retorica, che non siamo più nell’epoca in cui era la vendetta privata a essere strumento di giustizia: lo Stato che limita il ricorso all’autotutela privata (il "farsi giustizia da sé") è lo stesso Stato che prevede reati codificati, procedure e pene, lo stesso Stato che, tramite il sistema tributario, garantisce sanità, scuola, infrastrutture, sicurezza, assistenza, diritti sociali. Sono insufficienti? Può essere. Sono migliorabili? Senz’altro. Ma ci sono voluti diversi secoli di tentativi sociali ed elaborazioni giuridiche per giungere a un modello di socialdemocrazia ignorato in dichiarazioni come quelle del neo-ministro degli Interni.

Il richiamo salviniano al noi, al plurale, finisce così per demandare ai singoli la risoluzione dei problemi: l’Italia securitaria promessa è una società escludente, che utilizza concetti popolari per far leva sull’esasperazione e che finisce per far tornare tutti a baluardo del proprio castello, incapaci di concepire una collettività che rappresenta invece la salvezza degli esseri umani, scimmie nude senza zanne, né artigli, animali inadatti di sopravvivere da soli in natura.

La richiesta di verità per Giulio Regeni non è allora questione privata, come non lo sono la sicurezza, lo stato sociale, la gestione dei flussi migratori, la sanità o la scuola: dal diritto penale al welfare, infatti, "il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia".

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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