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La vera storia della parola ‘kamikaze’: da Kublai Khan all’ISIS

‘Kamikaze’ è forse una delle parole giapponesi più famose al mondo. Ma in italiano descrive qualcosa di molto diverso da ciò che significa in giapponese.
A cura di Giorgio Moretti
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Anno 1274. Kublai Khan, nipote di Gengis Khan, signore dei Mongoli e primo imperatore cinese della dinastia Yuan lancia una campagna militare per sottomettere il Giappone (siamo proprio negli anni in cui Marco Polo era alla sua corte). Otto anni prima il tentativo di assoggettarlo per vie diplomatiche era fallito: lo shogunato Kamakura aveva rifiutato con forza il giogo proposto. Kublai preparò così una flotta imponente e fece vela verso est. I Giapponesi poterono però contare su quella che per lunghi secoli avrebbero considerato la protezione di una mano divina: un tifone spazzò via la flotta mongola.

Kublai Khan non era certo uomo da farsi intimidire da un insuccesso dovuto ad avversità atmosferiche: solo sette anni più tardi, nel 1281, mise insieme una flotta molto, ma molto più grande della prima (si parla di 4.000 navi e 140.000 uomini) e mosse un secondo attacco. I Giapponesi si prepararono bene allo sbarco mongolo, che però si rivelò molto meno possente del previsto: anche stavolta un tifone travolse la flotta degli invasori. (Che peraltro, nella fretta di mettere in mare il maggior numero di navi possibile, avevano anche impiegato imbarcazioni fluviali o comunque inadatte alla navigazione in alto mare.)

I Giapponesi, forti dell'eloquenza di questa coincidenza, recuperarono una parola della loro mitologia per descrivere questi due tifoni gemelli che ne protessero le terre dai Mongoli: kamikaze, ossia ‘vento divino' (in kanji "神風", composto da kami, divinità dello shintoismo, e kaze, vento).

Durante la seconda guerra mondiale (o Guerra del Pacifico, come la chiamano in Giappone) questo antichissimo termine fu portato a nuova vita in un significato che ci è ben più noto: descrisse gli attacchi suicidi dei soldati giapponesi, in particolare piloti.

Al giorno d'oggi non è una parola usata volentieri, in giapponese: è quasi un tabù. E non è difficile intendere il perché di questa riservatezza. Quelle che dal punto di vista nipponico sarebbero storie di valore militare personale, guidate dall'amore per la patria e volte a difendere i propri cari, dal punto di vista dei vincitori che hanno scritto la Storia sono vicende di disperazione, e di nemici letali. Da non celebrare.Perciò il dolore giapponese vive in un ricordo discreto e rispettoso.

Ma la trasformazione più grande e impropria deve ancora avvenire. Nel Dopoguerra, in italiano, iniziano a farsi estensioni sporadiche del termine ‘kamikaze' per indicare altri tipi di attacchi suicidi, finché l'uso non si afferma nettamente durante la Guerra del Libano, fra il 1982 e il 1985. È quello l'inizio del kamikaze nelle vesti di terrorista suicida, specie afferente al terrorismo di matrice islamica.

Una veste che proprio non gli si confà: il kamikaze, vento divino, aveva rivolto la sua furia su obbiettivi militari, in una guerra aperta o minacciata. Cifra distintiva dei kamikaze dei giorni nostri è invece spesso l'attacco vigliacco a civili inermi.

Anche se questi tempi, per molti versi bui, ci hanno abituato al fenomeno dei terroristi suicidi, questa parola non andrebbe usata, non in questo senso. Il fatto che sia un'estensione impropria e ottusa è cosa nota: si dà alle tattiche spregevoli dell'ISIS, di Boko Haram una dignità non loro. Eppure il suo uso è sempre più frequente. Forse questo, alla fine, è proprio uno dei termini stranieri da sorvegliare di più.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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