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Gli otto punti di Bersani potranno cambiare l’Italia?

Gli otto punti di Bersani per rilanciare l’Italia piaceranno ai mercati? Solo nella misura in cui si tradurrano in atti concreti. Nel frattempo dobbiamo confidare ancora nella Bce e nell’abilità tattica del Tesoro italiano…
A cura di Luca Spoldi
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Elezioni - Conferenza stampa di Pierluigi Bersani

Che sia necessario fare qualcosa “più prima che poi” dovrebbe essere evidente a tutti, dopo che Banca d’Italia ha certificato che due terzi delle famiglie italiane ritengono che il reddito disponibile attuale sia insufficiente a consentire di risparmiare qualcosa a fine mese e in molti casi pure a mantenere stabile il livello di consumi. Una situazione insostenibile, come hanno iniziato a ricordare molti imprenditori e manager europei spaventati dall’ipotesi che di austerity, pur ritenuta in astratto necessaria, si rischi nel concreto di morirne, come notava ieri Sergio Marchionne, che affronta un mercato che sta crollando in verticale da un paio d’anni e che sempre di più deve fare affidamento alle vendite, in crescita, di Chrysler in America, dove per fare un confronto ormai si vendono oltre 3.300 Fiat 500 al mese, dopo le 43.772 vendute lo scorso anno, contro le 3.122 500 vendute in Italia a febbraio, dopo le 42.918 vetture vendute l’anno passato (si noti come in Italia la Fiat 500 è affiancata dalla 500 L, di cui a febbraio sono stati venduti 1.598 esemplari che però negli Usa, dove è ancora da commercializzare, potrebbe fare anche meglio).

Si fa presto a dire che occorre cambiare il sistema, spazzare via la “vecchia” politica e i “vecchi” imprenditori e poteri forti: un paese come l’Italia che ha 2 mila miliardi di euro di debito, di cui 1671 rappresentati (a fine febbraio scorso) da titoli di stato occorre dare concretezza alle promesse da campagna elettorale se si vuole che “fata fiducia” torni a far apparire il Belpaese solido agli occhi degli investitori internazionali. Una solidità messa in forse da atteggiamenti demagogici di alcuni dei protagonisti dell’ultima tornata elettorale che puntualmente fa impennare gli spread e rialzare i rendimenti sui titoli di stato italiani. Chi volesse continuare a dire “che ci importa dello spread” o “che ci interessa del debito pubblico”, tanto basta “rinegoziare i tassi d’interesse” (una rinegoziazione che può avvenire solo o “virtuosamente” grazie al varo di riforme in grado di far ripartire una crescita assente ormai da oltre 16 anni in Italia o “forzatamente” con un default tecnico in stile Grecia, magari destinato a “tosare” solo i bondholder italiani, ossia le nostre banche, piene zeppe di titoli di stato e che dunque rischierebbero di dover essere nazionalizzate per evitarne il crollo, e le famiglie italiane, soggetti cui complessivamente fanno capo circa i due terzi dei titoli di stato in circolazione) è un mentitore seriale, in buona o malafede che sia.

Vediamo di capirci: in questi giorni il rendimento del Btp decennale si è prima impennato una volta evidente lo stallo emerso dalle urne italiane, poi è tornato a scendere, sulla speranza che anche la Bce come la Bank of Japan e la Federal Reserve americana prosegua ed anzi rafforzi la propria politica monetaria ultraespansiva a sostegno dell’economia. E visto che quest’anno il bilancio della Bce si contrarrà a causa del rimborso anticipato di parte dei prestiti concessi a tre anni a tasso fisso (l’1%) attraverso le due Ltro di dicembre 2011 e dicembre 2012 ad oltre ottocento istituti europei per oltre mille miliardi, un quarto dei quali finito a banche italiane (a ulteriore evidenza della precarietà della situazione in cui versavano fino a pochi mesi fa i nostri istituti, i cui impieghi totali non raggiungono neppure il 12% del totale dell’Eurozona), l’unico modo per controbilanciare questa “naturale” tendenza e rendere meno pesante l’impatto recessivo delle misure di austerity fiscale varate in tutta l’Eurozona sotto la forte spinta dell’egemone tedesco, sarebbe quella di tagliare i tassi ufficiali sull’euro.

Ma un taglio di un quarto di punto, quale si ipotizza in questi giorni, quanto peserebbe per l’Italia? Il conto è presto fatto: sui suoi 1672 miliardi di titoli di debito il Tesoro italiano paga attualmente attorno al 6,5% e nel corso dell’anno dovrà emettere 300 miliardi di nuovi titoli tra rimborso di titoli che giungeranno a scadenza e nuove emissioni (tra cui potrebbero esservi un nuovo Btp a 30 anni, non più emesso dal 2009, e un nuovo Btp decennale indicizzato all’inflazione, titolo non emesso lo scorso anno). Lo 0,25% su 1672 miliardi (destinati a salire comunque vada oltre i 1700 miliardi a fine anno) rappresenta poco più di 4 miliardi, ma per effetto della durata media del debito (pari a fine febbraio a 6,54 anni) il risparmio complessivo sarebbe di oltre 27 miliardi. Se poi, grazie all’accorta gestione delle emissioni (nei primi due mesi dell’anno sfruttando la calma dei mercati il Tesoro ha già emesso 35,9 miliardi di titoli, il 19% delle emissioni lorde previste per l’intero 2013, contro i 33,7 miliardi emessi nei primi 2 mesi del 2012) si riuscisse a sfruttare al massimo il trend di riduzione di rendimenti e spread già visto tra novembre e febbraio, l’effetto potrebbe essere ancora più consistente.

Alla base del ragionamento c’è tuttavia un “se” molto rilevante: la fiducia dei mercati potrà essere mantenuta o anche rafforzata se e solo se la politica (in prima battuta in Italia, ma più in generale a livello europeo, visto che come più volte detto ci muoviamo all’interno di una crisi sistemica del vecchio continente) saprà passare dalle promesse e dai proclami ai fatti concreti. A dire la verità un piccolo segnale positivo sembra giungere oggi anche da questo fronte con la presentazione da parte del segretario nazionale del Pd, Pierluigi Bersani, di una lista di otto punti su cui fondare un programma di governo da proporre al M5S. Punti che richiamano la necessità di rinegoziare con la Ue una politica che vada oltre l’austerità e getti le premesse per una ripresa stimolata da investimenti pubblici, di velocizzare i pagamenti della PA, sviluppare la banda larga e ridurre il costo del lavoro “stabile”, abbattere i costi della politica, varare norme anti corruzione e sui conflitti d’interesse, estendere gli incentivi alle ristrutturazioni edilizie per migliorare l’efficienza energetica, bonificare aree degradate, sviluppare smart grid e ottimizzare la gestione del ciclo dei rifiuti, aggiornare le norme sulla cittadinanza e le unioni civili e potenziare l’istruzione a partire dalla messa in sicurezza delle strutture scolastiche.

Sulla carta è un ottimo programma, meno fumoso di quelli di cui si è discusso finora. Ma come per i “libri dei sogni” di Pdl e M5S il vero test sarebbe dato dalla realtà e la realtà, almeno a stare a sentire gli analisti finanziari (ad esempio quelli di Morgan Stanley) è che mentre è abbastanza probabile che alla fine si formi un governo di qualsivoglia natura, resta difficile al momento credere che possa avere vita duratura e una grande forza. Ma senza forza e senza un orizzonte di medio-lungo periodo in Italia non si è mai stati in grado di varare nel concreto le riforme preannunciate (come si è visto, ad esempio, con l’esecutivo guidato da Mario Monti) e a volte anche quando le norme sono state varate ci si è accorti con colpevole ritardo (vedasi lo scandalo degli “esodati”) che non tutto sarebbe andato come previsto. Speriamo bene, ma per il momento il destino dei nostri titoli di stato e con essi la speranza di evitare una recrudescenza della crisi sembra dipendere più dalla Bce e dal Tesoro che da Bersani, Grillo, Berlusconi o Monti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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