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Opinioni

Per ripartire occorre passare dalle promesse ai fatti

In campagna elettorale tutti fanno a gioco a spararla più grossa, promettendo meno tasse e più lavoro per tutti. Ma come stiano realmente le cose non è difficile capirlo: senza riforme non ci sarà ripresa…
A cura di Luca Spoldi
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Berlusconi all'arrivo alla Stazione Centrale di Milano con la Pascale

Niente contributi previdenziali o tasse da pagare per i primi quattro o cinque anni per chi assume un nuovo dipendente a tempo indeterminato! L’ha sparata grossa il proprietario del PDL ed ex premier italiano Silvio Berlusconi, ieri sera a Porta a Porta, nel tentativo di non farsi superare nella corsa a chi promette di più in campagna elettorale.  Del resto se Corrado Passera, ministro uscente dello Sviluppo e ufficialmente fuori dalla partita, parla di “alleggerire il carico fiscale per le famiglie con redditi bassi e con figli e per le imprese che investono in innovazione e internazionalizzazione e soprattutto che assumono”, il premier in carica Mario Monti, dopo aver piegato lo spread e fatto risparmiare qualche miliardo di euro di interessi allo stato (evitando per ora l’ennesima “manovra correttiva” che puntualmente finirebbe col vuotare ancor più le tasche degli italiani), messi in sicurezza i conti pubblici con qualche taglio alla spesa (con la “spending review”), nuove riforme in ambito previdenziale, assistenziale e del lavoro e nuove tasse (tra cui l’anticipo di un anno dell’Imu, peraltro varato dal governo Berlusconi), ha ammesso, facendo propria l’opinione giunta nel frattempo da Bruxelles, che l’Imu potrebbe essere migliorata per rafforzarne la progressività e girarne una maggiore quota ai Comuni, mentre l’Irpef potrebbe finalmente calare.

L’unico che per ora resta prudente sul tema di un allentamento della “repressione fiscale” (termine utilizzato dagli analisti finanziari di tutto il mondo per ricordare come l’austerity sia stata decisa in sede Ue e abbia tratti, nel breve termine, punitivi per le economie in particolare del Sud Europa) pare Pierluigi Bersani, che forte di sondaggi che lo vedono ampiamente in testa e dunque premier “in pectore” preferisce non fare troppe promesse ma alla fine si lascia andare e ammette pure lui: “è chiaro che va fatta una riorganizzazione delle aliquote” fiscali, anzi il numero uno del PD crede che “certamente sia pensabile una riduzione delle aliquote più basse e un innalzamento di quella più alta senza arrivare a vertici elevatissimi” (insomma: vista anche la fuga di molti grandi contribuenti come il numero uno di Lvmh, Bernard Arnault, o l’attore Gerard Depardieu, il 75% imposto dal presidente francese Francois Hollande come prelievo fiscale per i redditi da lavoro superiori al milione di euro non verrà imitato, per fortuna). Del resto l’uomo è un pragmatico e poche sere fa aveva già spiegato, rispondendo a chi gli chiedeva lumi su un’eventuale (ulteriore) imposta patrimoniale: quanto e come graverà l’imposta, che potrebbe essere applicata su immobili di valore superiore agli 1,5-2 milioni di euro, “dipende da quanti soldi si devono tirare su” (sic).

Di fronte a questo turbinio di promesse, proposte, analisi, commenti, cifre e proiezioni c’è da perdersi la testa, ma per capire come stiano le cose basta fare qualche conto. La ricchezza netta delle famiglie italiane, dice la Banca d’Italia, era pari a fine 2011 “a 8.619 miliardi di euro, corrispondenti a poco più di 140 mila euro pro capite e 350 mila euro in media per famiglia” oltre ad essere, incidentalmente, pari a oltre 4,3 volte il debito pubblico italiano. Peccato che il 62,8% di tale ricchezza, ricorda ancora Bankitalia, sia rappresentato da “attività reali” (ossia terreni e immobili), che per loro natura non sempre sono agevolmente liquidabili e in compenso sono facilmente tassabili (appunto tramite una patrimoniale). Visto così, e ricordando che “lo stato siamo noi”, la situazione non appare tuttavia così brutta no? In fondo un’azienda che avesse un indebitamento pari a un quarto dei mezzi propri sarebbe considerata più che virtuosa, dunque perché aumentare le tasse? Perché i mercati hanno da tempo notato una cosetta: che la crescita italiana è nulla o minima (quando non negativa come in anni come il 2012 e il 2013) mentre il costo sul debito resta decisamente elevato (secondo il Tesoro  nel 2012 è risultato pari, per l’intero debito pubblico italiano, al 3,11%, variando tra il 5,65% medio per i Btp di durata decennale e lo 0,81% medio dei Bot a 3 mesi), anche se tenendo conto che l’inflazione è attorno al 2,4% il quadro migliora non di poco (i tassi pagati sui titoli di stato sono nominali e al lordo del prelievo fiscale del 12,5%, dunque i tassi reali netti per lo stato si aggirano al momento attorno al 2,66% medio complessivo, di fatto essendo negativi sino alla scadenza dei 2 anni).

Ma come, si dirà: la crescita è il problema e non si fa nulla per risolverlo? Esattamente, perché per tornare a crescere occorrerà prima (ora che in qualche modo i conti sono stati messi in sicurezza e un recupero minimo di competitività salariale è stato avviato) rafforzare il nostro tessuto industriale e tornare a rendere l’Italia appetibile per gli investitori esteri, così da affiancare alle esportazioni (che risentono per loro natura degli alti e bassi dell’economia europea e mondiale) una seconda valvola di sfogo per la nostra economia che in questo momento soffre della contrazione della domanda interna sotto i colpi della riduzione del credito, dei (blandi) tagli alla spesa pubblica e dell’incremento della pressione fiscale. Ma per riuscirci occorre varare riforme realmente strutturali in ambiti quali: il welfare (non tanto nel senso di un’ulteriore riduzione generalizzata della spesa pubblica quanto di ridefinizione di quelli che sono i diritti da garantire, le modalità con cui garantirle, il reperimento delle risorse disponibili per farlo), la struttura produttiva (settori, infrastrutture, contratti collettivi, albi professionali), il sistema educativo (riorientamento dei programmi, introduzione di criteri di verifica delle prestazioni erogate e del grado di apprendimento, introduzione di nuove tecnologie con cui diffondere la formazione e darle un carattere di continuità, valore dei titoli di studio), i rapporti con i nostri partner (in seno alla Ue e al di fuori da essa).

Tutte cose noiosissime e che producono effetti solo col passare degli anni, per di più da fare tenendo sempre conto di quali sono le risorse disponibili, quali gli impegni inderogabili (in ambito nazionale ed internazionale), quali gli obiettivi auspicabili a lungo termine e quelli concretamente raggiungibili a breve-medio termine, riuscendo a vincere ogni volta la pressione formidabile delle mille caste e lobbies italiane che, assieme a corruzione e burocrazia, frenano da decenni questo paese. Ritornando a offrire speranze e opportunità ai residenti (e contribuenti) italiani, imprese o famiglie che siano, in un’economia ormai integrata a livello globale che premia chi sa offrire una migliore qualità ad un costo inferiore ma penalizza chi si attarda e non riesce a innovare abbastanza velocemente per tener testa a concorrenti che non sono più il distretto a fianco o la regione distante qualche centinaia di chilometri, ma possono essere dalla parte opposta del globo. Eppure sarebbero questi i temi che i nostri aspiranti governanti dovrebbero affrontare e a cui dovremmo appassionarci tutti noi anche in campagna elettorale, se vogliamo sperare di veder ripartire l’Italia, al di là della retorica propagandista dell’uno o dell’altro politico di turno.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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