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Opinioni

Perché la sicurezza delle donne non può passare da una chat e dallo “scrivi quando arrivi”

Più si moltiplicano i gruppi di auto-aiuto per permettere alle donne di sentirsi più sicure in città, più lo Stato certifica il suo fallimento. Perché le donne, quando escono, devono sentirsi libere, non coraggiose.
A cura di Jennifer Guerra
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“Scrivi quando arrivi” è il nome di un gruppo WhatsApp creato da una studentessa di Bologna di 22 anni, Samia Outia. La chat serve a organizzare videochiamate per tenersi compagnia quando si torna a casa la sera da sole, in modo da scoraggiare catcalling o altre aggressioni. Non è l’unica chat di questo tipo: se “Scrivi quando arrivi” è un’iniziativa informale nata dal basso, esistono alternative più strutturate come l’app multilingue Viola Walk Home, disponibile 24 ore su 24, che offre lo stesso servizio.

Il mutuo aiuto è da sempre la prima soluzione delle donne alla violenza di genere: ai tempi delle suffragette, si organizzavano corsi di jujitsu per imparare a difendersi. Gli stessi centri antiviolenza, oggi integrati nel sistema e finanziati con fondi pubblici, sono nati negli anni Settanta come iniziative autonome delle donne contro l’inerzia dello Stato nel proteggerle. Dove lo Stato fallisce, le donne intervengono.

E sulla loro sicurezza, lo Stato ha fallito. Secondo l’Osservatorio Indifesa realizzato dalla Ong Terre des Hommes, il 61% delle giovani donne ha subito episodi di catcalling, contro il 6% dei maschi. Un’altra indagine, quella del progetto Hollaback! della Cornell University, rileva che l’88% delle donne ha cambiato strada perché non si sentiva sicura dove stava camminando e 1 donna su 2 ha paura di uscire da sola la sera. Di solito il fenomeno è minimizzato, o ridotto a un complimento molesto, ma spesso il catcalling è preludio di qualcosa di peggio, come un pedinamento o una vera e propria aggressione fisica.

La paura delle donne, insomma, è giustificata, ma le soluzioni messe in campo finora dalle istituzioni si sono rilevate insoddisfacenti. L’aumento della presenza delle forze dell’ordine in certi luoghi delle città non è sinonimo di sicurezza, ma anzi rischia di creare ghetti o di esasperare situazioni di disagio sociale, come sta succedendo a Caivano dopo l’introduzione del decreto che ne porta il nome, voluto proprio a seguito di un episodio di violenza sessuale. Inoltre, come sa benissimo ogni donna che attraversa da sola le strade di notte, non serve andare in chissà quali zone degradate per sentirsi in pericolo: anche una passeggiata in pieno centro non è immune al catcalling. Lo scorso anno una donna di 19 anni è stata aggredita in piazza della Scala a Milano da un ragazzo conosciuto la sera stessa, e si è salvata solo grazie al fatto che la manager di un McDonald’s in cui si era rifugiata ha riconosciuto il “signal for help”, il gesto con le quattro dita chiusa che indica pericolo.

L’autotutela, quindi, sembra l’unica risposta possibile di fronte a questi episodi, che compromettono non solo la sicurezza delle donne, ma anche la loro qualità della vita, obbligandole a deviare dai loro piani, a evitare di frequentare certi quartieri o a chiamare un taxi anziché prendere i mezzi. E per quanto sia importante affidarsi alle altre, non dovrebbero essere le chat o le app a salvarci la vita. Né le strade presidiate dalle forze dell’ordine, spesso incapaci, per mancanza di una formazione e una sensibilità adeguate, di riconoscere le situazioni di pericolo e di intervenire.

Nel suo libro La città femminista, l’urbanista Leslie Kern mostra come l’architettura delle città sia ostile alle donne, dall’assenza di marciapiedi da percorrere coi passeggini, alla collocazione dei servizi di cura e dell’infanzia. Ovviamente questo ha conseguenze anche sulla loro sicurezza: strade poco illuminate e mezzi di trasporto inefficienti rendono le città non solo più invivibili, ma anche più pericolose per le donne. È rassicurante affidarsi a una rete di supporto come quella offerta dalle chat e dal mutuo aiuto, ma questo è solo un modo per tamponare un problema molto più ampio, di cui si devono prendere cura le amministrazioni cittadine, non limitandosi più a riempire le strade di poliziotti pensando sia l’unica soluzione possibile.

Le soluzioni sono altre. Oltre a rendere più femministe le nostre città, dobbiamo rendere più femministi i loro cittadini. Questo è un passaggio che non si può più ignorare, innanzitutto cominciando a prendere sul serio la paura delle donne e smettendo di minimizzare il catcalling, considerandolo ciò che è, una molestia, e non un complimento. Gli uomini dovrebbero imparare a riconoscere le reazioni delle donne alla loro presenza e far sì che non siano più soltanto loro a dover cambiare lato del marciapiede quando camminano in una strada buia.

Una scritta su un muro di Bari recita: “Quando esco voglio sentirmi libera, non coraggiosa”. E se è vero che la sicurezza di avere una comunità di donne come quella del gruppo WhatsApp "Scrivi quando arrivi" a cui appoggiarsi nei momenti di pericolo è fondamentale, è ancora più importante arrivare al punto in cui di questa comunità non ci sarà più bisogno perché tutti, a prescindere dal genere, si sentiranno liberi di attraversare le strade in sicurezza.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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